domenica 15 febbraio 2009

Lo Straniero

Principessa di un regno ormai morto, stava in piedi sul balcone del palazzo, la testa rivolta in alto a osservare le stelle che punteggiavano il cielo notturno.
Il bianco dei suoi lunghi abiti e il biondo dei lisci capelli, che quasi toccavano il pavimento, contrastavano l’oscurità della notte e il nero della sua anima.
Il paese su cui un tempo aveva regnato era insonne quella notte. Nessuno di coloro che l’avevano amata e temuta stava dormendo il sonno del giusto.
Li vedeva, in lontananza, marciare verso il castello, impugnando torce e forconi, come se armi così rozze potessero veramente rappresentare una minaccia per la loro regina. A lungo aveva aspettato che un simile giorno giungesse, ed era ormai convinta che non sarebbe più accaduto.
Il terrore, le vittime, i sacrifici, niente di tutto ciò era riuscito a smuoverli prima, a spingerli a rivoltarsi al suo giogo. Perché ora, quindi? Cosa era cambiato? Cosa li animava, nella loro folle e suicida ribellione?
“Ti amano.”
La voce che proveniva dall’interno della stanza, rompendo il silenzio, la colse del tutto alla sprovvista. Qualcuno era riuscito ad arrivare fin lì senza che lei se ne accorgesse, era semplicemente inaudito, impossibile!
Si voltò con la fluidità di una pantera, gli occhi scintillanti fissarono lo sconosciuto dalle vesti nere come la notte che stava lì a osservarla, un enigmatico sorriso stampato sul volto.
Le parve di cogliere nei suoi occhi un riflesso del suo stesso sguardo, quello sguardo che poteva immobilizzare una vittima, incantarla, farle amare ogni singolo istante della propria morte.
“Chi sei?” gli chiese con un sibilo ferino.
“Non puoi conoscere il mio nome. Non ancora.” rispose lui suadente, senza mai smettere di fissarla o sorriderle.
Lei scivolò nella stanza senza un suono, in un batter di ciglia, talmente veloce che nessun occhio mortale avrebbe potuto vederla muoversi.
Si ritrovò con le braccia sollevate a pochi millimetri dal volto di lui, le unghie incurvate e mutate in artigli, i polsi saldamente serrati in due mani possenti che le impedivano di sferrare il suo attacco letale.
La pelle dell’uomo era calda, il contatto con la sua, fredda come ghiaccio, come la morte stessa, sembrava quasi bruciare, e al tempo stesso era piacevole, il ricordo di un’umanità sopita ma mai distrutta.
Lui la costrinse ad abbassare le braccia. I loro occhi si incrociarono, così simili e così diversi allo stesso tempo.
“Sei venuto per uccidermi?” gli chiese. Il suo tono era quasi rassegnato. Forse era giunto il suo momento, aveva ingannato la morte tanto a lungo, non era forse tempo di abbandonarsi al suo freddo abbraccio, come avevano dovuto fare tutti coloro che l’avevano aiutata, non per scelta, a evitarlo?
“Sono venuto a guardare il cielo assieme a te.”
La fece ruotare, lentamente, e assieme a lei si incamminò verso il balcone. Lei non oppose resistenza. Qualcosa in quell’uomo, se di questo si trattava, sembrava in grado di superare ogni sua difesa.
Quando furono usciti, lui le lasciò andare i polsi e, standole alle spalle, la cinse in un abbraccio che era al tempo stesso tenero e tanto forte da impedirle di liberarsi.
“Guarda – le disse – è l’alba.”
Lei cercò di sfuggire alla sua presa, terrorizzata, senza riuscirvi. Poté soltanto voltare il capo, come se il solo distogliere gli occhi potesse servire a salvarla dal destino che la attendeva quando la luce del sole avrebbe raggiunto la sua pelle candida.
Si ritrovò a sfiorare con le labbra la gola di lui. Sentì la familiare pulsazione del sangue nelle vene, il sapore dolce e salato della sua pelle.
“Fallo. – le disse lui – È per questo che sono qui.”
Lei non capì, ma non era di capire che aveva bisogno. Quasi sentiva il calore dell’astro che l’avrebbe distrutta crescere nel cielo sopra di lei, e fece tutto ciò che sapeva e poteva fare. Aprì la bocca e baciò il suo collo, poi affondò gli aguzzi canini nella sua pelle e ne trasse il denso liquido che per lei, più che per ogni altro, era vita.
Le scese nella gola come fuoco liquido, una sensazione che non aveva mai provato. Una mano dietro la nuca le impedì di allontanarsi, di smettere di suggere quel dolce veleno. Ormai scorreva dentro di lei senza alcuno sforzo da parte sua, le incendiava la gola e la pelle, più di quanto il sole avrebbe potuto fare. Ma non stava morendo, no.
Stava tornando alla vita.
Si perse in quella sensazione di dolore e piacere, finché il battito frenetico del cuore nel suo petto – quel cuore fermo ormai da decenni – la fece trasalire.
Lui le carezzò le guance, sollevandole il volto verso la sfera infuocata che ora dominava il cielo. La luce le ferì gli occhi, ma fu solo un istante, e lacrime che ormai aveva dimenticato le rigarono il volto.
Fuori dalle mura del castello, i contadini erano testimoni di un evento senza precedenti, che riuscivano a comprendere solo col cuore e non con la mente.
“Salutate la vostra regina, e la sua nuova vita.” li esortò l’uomo. Un grido di gioia si levò dalla folla.
“Come possono…? – farfugliò lei – Dopo tutto quello che ho fatto…”
“Te l’ho già detto. Ti amano. Non è qualcosa su cui io possa sbagliare.”
“Ma tu…?”
“Shhh!” la zittì lui, portandosi un dito alle labbra. Poi, con quelle stesse labbra, la baciò.

1 commento:

  1. Altro racconto scritto per un contest amichevole su un forum. In questo caso la "traccia" era scrivere un testo che desse un senso alle parole dell'aria "Nessun Dorma" della Turandot.

    RispondiElimina