giovedì 3 dicembre 2009

Quel che resta

Se quello fosse stato un film, la stanza vuota attorno a lei sarebbe stata visibile in un'improbabile penombra nonostante la totale assenza di luce. Gli spettatori non avrebbero mai gradito di restare davanti a uno schermo nero, preferendo l'assenza di logica in una scena che resta visibile anche dopo che le luci sono state spente alla pura e semplice, per quanto normale, assenza di illuminazione.
Ma quello non era un film, era la sua vita. Non c'erano eroi, non c'erano protagonisti invincibili, e non c'era alcuna luce "magica" a rischiarare i contorni di quella soffitta.
L'oscurità la avvolgeva come un'impalpabile coperta; il silenzio, interrotto solo di quando in quando dal lieve trepestio dei topi che passeggiavano sulle assi del soffitto, la accarezzava lieve, consentendole di dimenticare ciò che la circondava e immaginare un mondo diverso, una vita differente.
Si sentiva galleggiare in quella gradita quiete, riuscendo quasi a ignorare il metallo che le avvolgeva e piagava i polsi, ad allontanare dalla sua mente la creatura, il demone che infestava il piano di sotto e i suoi sogni violati.
I suoi occhi erano aperti anche se non c'era nulla da vedere. O forse proprio per quello, perché chiudendoli avrebbe visto, e non voleva più vedere, non voleva più ricordare, non voleva più sapere.

L'apparizione della luce la colse di sorpresa. Non era che un fioco puntino distante, tremulo come la fiamma di una candela, fievole come il residuo di una lampadina appena spenta, ma presto ve ne furono altri ad accompagnarlo. Uno, due, poi tre.
Riuscì a contarne cinque prima che iniziassero a muoversi, avanzando verso il suo letto in una danza lenta e delicata, come sospinte da una brezza che non esisteva.
Quella vista la allontanò ancor di più dai suoi pensieri cupi, lasciandola stupita a domandarsi cosa fossero quei fuochi fatui dinnanzi a lei. Si chiese se potessero essere lucciole – non ne aveva mai viste dopotutto – ma come avrebbero potuto entrare nella soffitta? L'unica finestra era chiusa, oltre a trovarsi alle sue spalle e non là dove le sue inattese compagne si erano manifestate.
Rimase affascinata a guardarle finché non furono così vicine che sarebbe bastato allungare un braccio per sfiorarle, anche se lei non lo avrebbe mai fatto, per paura che il tintinnio delle catene potesse spaventarle e farle fuggire via. Sporse invece la testa, avvicinandosi quanto più poteva, e solo allora le vide davvero per ciò che erano.
Bambine come lei, eppure non come lei. Poco più di ombre trasparenti nelle tenebre, con un solo, fioco bagliore che illuminava i loro diafani corpi dall'interno, sprigionandosi dai loro cuori: era quella la luce che aveva visto. Tutte la guardavano con occhi tristi e al tempo stesso pieni di speranza. Una stringeva al petto una bambola di pezza, quella stessa bambola che ancora giaceva dimenticata in un angolo della soffitta, coperta di polvere e ragnatele.
Lei capì, e non ebbe paura. Non erano loro a spaventarla, erano solo bambine che un tempo erano state terrorizzate come lei.
«Perché siete qui?» domandò con un filo di voce, per timore di essere udita dal mostro al piano di sotto.
«Devi uscire» disse la prima.
«Devi aiutarci a riposare» continuò la seconda.
«Devi battere il mostro» proseguì la terza.
«Noi non possiamo» spiegò la quarta.
«Siamo morte, morte da troppo tempo» concluse la quinta.
«Ma come posso fare?» chiese lei, e sollevò i polsi per far notare le catene che li stringevano. Con sua grande sorpresa non ne avvertì il peso, e le sentì restare sul letto mentre le sue braccia si tendevano libere verso le sue nuove amiche.
«Tu puoi farlo. Ti aiuteremo» le disse ancora una delle bambine, o forse furono tutte assieme a farlo, non avrebbe saputo dirlo. Una di loro avanzò e le porse la bambola che teneva tra le braccia; lei la accolse come un dono prezioso, stringendola a sé, e si alzò in piedi, avviandosi lenta verso la porta.
Lo specchio sulla parete moltiplicava le luci che la circondavano, rendendole un numero indistinto come se potessero riflettersi all'infinito. Per un attimo le parve di essere entrata in un altro mondo, circondata da fatine alate che l'avrebbero condotta a un nuovo regno privo di dolore e tristezza, ma sapeva che avrebbe dovuto meritarselo.
Oltrepassò la porta senza esitare, discese le scale senza fare alcun rumore e attraversò la casa in silenzio, cercando la bestia che vi abitava.
Il demone era lì, seduto su una poltrona sghemba davanti alla televisione accesa. Indossava una canottiera sporca e dei calzoni unti, e non si era accorto di lei.
Avrebbe potuto trovare qualcosa per colpirlo. Avrebbe potuto scappare. Avrebbe potuto fare molte cose, ma solo una era quella che doveva fare, e la fece.
Senza dire nulla avanzò verso di lui. Lo ignorò quando la guardò con sorpresa e le chiese come fosse uscita, lo ignorò quando cercò di afferrarla e riportarla indietro, lo ignorò quando le urlò contro; poi gli porse la bambola.
Lui si ritrasse, tentò di indietreggiare e trovò dietro di sé la poltrona, facendola ribaltare e rovesciandosi all'indietro con essa, poi non si mosse più. Lei si affacciò a guardarlo, fissò i suoi occhi sbarrati e capì che era finita. Le restava una sola cosa da fare.
Lasciò la casa e uscì in giardino. Non sapeva dove fossero state sepolte le altre, non aveva nulla per ricordarle, così lasciò la bambola sulla nuda terra, come una lapide collettiva che presto sarebbe stata portata via. Non era molto, ma sarebbe bastato.
Dai suoi occhi sgorgarono scintillanti lacrime di gioia e sollievo, che rimasero lì sospese a lungo, anche quando il resto di lei si disperse nel vento della sera, abbandonando quel che restava, le sue spoglie mortali, su un letto sporco in una soffitta buia.
L'incubo era finito.

giovedì 5 novembre 2009

[OT] Piccolo annuncio

Quando ho creato questo blog ho precisato nel primo e (finora) unico post non narrativo che avrebbe contenuto solo racconti.
Infrango questa regola che io stesso avevo imposto per una ragione di necessità, o che almeno tale mi sembra.
Chi mi segue avrà notato che da tempo non aggiornavo il blog. Questo non perché non potessi, in realtà, ma per altri motivi che, a tempo debito, spiegherò in altra sede (ovvero sul mio blog principale). Gli stessi motivi mi portano ad aver eliminato tutti i (pochi) capitoli pubblicati della prima stesura del mio romanzo e a far ritornare (presto) questo blog al formato antologico con cui è nato.
No, non è successo niente di grave, e no, non aggiungerò altro per il momento. ^_^

mercoledì 13 maggio 2009

Il Centro dell'Universo

Era la vigilia del grande giorno e Sarah, sola in un letto troppo grande per lei, non riusciva a chiudere occhio.
Anni di studi sulla tecnologia di curvatura spaziale, di calcolo di coefficienti di espansione e vettori, avevano infine portato l’umanità alla soglia di quell’ultimo traguardo e lei, proprio lei, Sarah Myers, era stata scelta per comandare l’equipaggio della prima nave che si sarebbe recata al centro esatto dell’universo.
Con gli occhi chiusi, inseguendo un sonno che continuava a sfuggirle, rivedeva proiettate nella sua mente le tappe che avevano condotto il mondo a quel punto, fin dall’invio delle prime sonde, che si erano rivelate incapaci di trasmettere informazioni una volta giunte a destinazione, per arrivare alla decisione di inviare un equipaggio umano che potesse testimoniare ciò che gli apparecchi vedevano ma tenevano gelosamente per loro stessi.
Nonostante le nuove tecnologie, il viaggio sarebbe durato anni, durante i quali lei e il suo equipaggio avrebbero dovuto essere posti in uno stato di animazione sospesa. Era un piccolo sacrificio per il coronamento del sogno di una vita, e le sarebbe piaciuto che anche Carl, suo marito, l’avesse vista a quel modo. Certo, comprendeva anche lei che avrebbe perso gli anni dell’infanzia dei loro figli, che si sarebbero rivisti dopo chissà quanto senza che lei fosse neppure invecchiata, se non dei pochi giorni di attività dopo l’arrivo a destinazione, ma tutto questo impallidiva di fronte all’eccezionale scoperta di cui sarebbe stata artefice e testimone.
Carl non capiva, e come avrebbe potuto? Era un uomo con i piedi ben saldi a terra, non come lei che aveva sempre vissuto nello spazio con la mente anche quando non poteva recarvisi con il corpo. Così aveva preso i bambini ed era andato via una settimana prima, affermando che se proprio dovevano fare a meno di lei avrebbero fatto meglio ad abituarvisi fin da subito. Lei li aveva lasciati andare. A modo suo, lui aveva ragione, e una settimana in più, anche se con la piena coscienza di sé e non persa nell’oblio indotto da un macchinario, che differenza avrebbe mai potuto fare?

Il mattino giunse dopo un alternarsi di sonno e veglia tale da creare più confusione di quanto riposo portasse, ma lei era semplicemente troppo eccitata per sentire la stanchezza quando salì lungo la scaletta che l’avrebbe portata all’interno della nave spaziale. Pur sapendo che ciò che la aspettava al momento era soltanto una lunga serie di controlli seguita da un ancor più lungo periodo in cui sarebbe stata del tutto estranea al mondo, visse ogni istante con ansia estrema ed estrema voglia di passare oltre, di avviarsi alla fase successiva. Quando la porta della capsula di ibernazione si chiuse sopra di lei, dall’oblò trasparente si poté vedere l’ampio sorriso che le si era disegnato sul volto.

Riaprì gli occhi.
Dal suo punto di vista fu come se avesse solo sbattuto le ciglia e, in quell’istante, il mondo attorno a lei fosse cambiato. I tecnici che circondavano la sua capsula erano scomparsi, i macchinari al contrario pulsavano di vita, e i monitor segnalavano l’approssimarsi della fine del viaggio.
Uscì dalla capsula con addosso le medesime sensazioni che stava provando quando vi era entrata, eccitazione inclusa. Il suo primo compito era quello di verificare che tutto l’equipaggio fosse stato svegliato e che tutti i macchinari fossero in funzione, ma si ritrovò a dover affrontare un’imprevista sorpresa: le altre capsule erano ancora sigillate... e vuote. Fu la prima cosa a stupirla più della seconda: perché gli altri avrebbero dovuto richiudere i sigilli dopo aver lasciato i loro posti? Che senso aveva? La loro assenza, in cambio, era un problema secondario: la nave non era enorme, sarebbe bastato cercarli. Era probabile che fossero andati a mangiare qualcosa, o stessero controllando le apparecchiature delle altre sezioni.
Stava per inviare un messaggio audio quando gli strumenti segnalarono qualcosa di indefinito e poi più nulla del tutto, spegnendosi di colpo e lasciandola al buio. Per un singolo istante il panico la colse, subito però venne sostituito dall’addestramento e fu pronta a reagire. Tentò di accendere la torcia sul polso della sua tuta e, quando non ci riuscì, avanzò a tentoni per raggiungere il quadro comandi e provare a riattivare tutto nonostante l’oscurità.
Fece un cauto passo dopo l’altro, le mani tese in avanti, inclinate in basso verso dove avrebbe dovuto trovarsi la console. Continuò ad avanzare, e avanzare, e avanzare, senza toccare nulla lungo la sua strada, anche quando fu ormai chiaro che aveva camminato ben più a lungo di quanto avrebbe dovuto esserle possibile fare nello spazio limitato della cabina. Ruotò lentamente le braccia attorno a sé in cerca di qualcosa di solido che non trovò. Era come se la cabina, per non dire l’intera nave, fosse scomparsa, e lei si trovasse a fluttuare inerme in uno spazio oscuro e privo di stelle... qualcosa che non poteva essere vero: non indossava una tuta per l’attività extraveicolare, e sarebbe morta sul colpo al di fuori dello scafo.
La luce la colse alla sprovvista, comparendo nel suo campo visivo non come un lampo o l’accensione di una lampadina ma, non avrebbe saputo spiegarlo in altro modo, come se fosse sempre stata lì: un puntino bianco e luminoso che sembrava chiamarla a sé. Non avrebbe saputo dire se avesse davvero iniziato ad avanzare verso la luce, se fosse stata la luce a muoversi verso di lei o se questa avesse piuttosto iniziato a espandersi fino a diventare un globo di dimensioni tali da poterla accogliere al suo interno, se solo avesse compiuto quell’unico passo che ancora la separava da esso.
Affascinata da quell’insolito e inatteso spettacolo, tese una mano come ad accarezzare la sfera lattiginosa, stupendosi di come, per quanto intenso fosse il bagliore che emanava, le fosse possibile fissarla senza che i suoi occhi venissero feriti, e come l’oscurità attorno a essa non ne sembrasse influenzata. Non c’era alcuna zona d’ombra, solo un netto e distinto confine tra bianco e nero.
Stava per avanzare ancora, ansiosa di scoprire cosa si celasse oltre quella che stava iniziando a considerare una soglia, quando sentì una voce chiamare il suo nome da un punto indistinto: “Sarah”.
Si voltò, cercando l’origine di quel suono. Come ovvio non riuscì a vedere nulla. Il richiamo si ripeté, ma ora pareva provenire da un punto diverso: “Sarah”.
Il suo pensiero corse al resto del suo equipaggio, forse sperduto anch’esso in quell’oscurità, forse in grado di vedere lei stagliarsi contro la luce. Fu sul punto di rispondere “Sono qui”, ma la sua attenzione venne nuovamente catturata dal globo. Riprese ad avanzare.
“Sarah!” il tono questa volta era più concitato, quasi d’urgenza. Restò in sospeso per un attimo, ma doveva sapere, non poteva fermarsi in quel momento.
“Sarah!”
Fece l’ultimo passo. Precipitò nella luce e poi di nuovo nel buio, un buio meno indistinto, più familiare.
“Sarah” Questa volta la voce proveniva da più vicino, avrebbe potuto allungare la mano e toccarla, se fosse stata qualcosa di solido. Un’immagine confusa prese a formarsi lentamente davanti ai suoi occhi, come in una graduale messa a fuoco. Riconobbe un volto, il volto di Carl, chino su di lei, sorridente. I bambini erano accanto a lui e la guardavano come fosse stata la donna più bella del mondo. Probabilmente per loro lo era.
“Sarah? Buongiorno! Sai che non riuscivo a svegliarti? Mi hai fatto preoccupare.”

giovedì 7 maggio 2009

Il diario segreto di Edward Cullen

Che giorno è oggi? Non lo so. Boh, sono tutti uguali.
Anche oggi scuola, che palle! Non so più quante volte le ho studiate queste cose, ma non potevano vampirizzarmi, non so, a venticinque anni? Che poi ogni tanto mi viene il dubbio che anche il cervello mi sia rimasto a diciassette...

...

Arrivata una nuova ragazza a scuola, agile come un ippopotamo ubriaco. È carina, sì, ma si vede che lo sa e fa la finta modesta per tirarsela. E poi... ma si lava? Puzza di sangue lontano un miglio, magari avrà le sue cose ma non è una buona scusa per ignorare le norme più basilari dell’igiene personale.
Non riesco a leggerle la mente, sicuramente non ne ha una.

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Oddio ma quanto è appiccicosa questa? Più si cerca di evitarla e più ti viene dietro. Un altro po’ e si faceva mettere sotto da un camion per attirare l’attenzione, e io scemo che l’ho pure salvata.

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Ho capito, ci sta provando. Vabbe’, è un secolo che vado in bianco, quasi quasi approfitto. Mi invento qualche balla romantica sul guardarla dormire e vediamo come va a finire.
Certo prima o poi dovrò spiegarle perché la evitavo, mica le posso dire in faccia che puzza, se no continuerò ad andare in bianco per i prossimi secoli. Mi inventerò qualcosa...

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Dice che ha capito che sono un vampiro. Contenta lei. A me risulta che i vampiri siano completamente diversi, ma le donne è meglio non contraddirle.

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Ma perché ho deciso di invitarla alla partita di baseball? Potevamo passare una bella serata, e adesso invece mi tocca difenderla da un maniaco, che, fosse per me, potrebbe pure mangiarsela ma ho paura che lasci il lavoro a metà e poi mi tocchi sopportarmela per l’eternità come non morta. Poi con la sfiga che ho si ritroverà sicuramente il potere di causare disastri naturali ovunque vada, praticamente ce l’ha già!

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C’è mancato poco! Mi è pure toccato succhiarle via il veleno per evitare che si trasformasse, che schifo! Sempre meglio che tenersela appiccicata per sempre, comunque.
E adesso vorrebbe diventare come me, ma non lo capisce che non la voglio?

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Ho deciso, la mollo. Le sparo la solita menata del non sei tu, sono io, è per il tuo bene, e me ne vado. Se è intelligente mi dimentica, ma siccome so che non ha cervello magari si butta da un ponte, comunque me ne libero.

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Alice mi ha appena detto che si è buttata da una rupe. Alè! Me ne vado in vacanza in Italia per festeggiare!

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È viva. L’ha salvata un lupo mannaro. Ecco perché li odio. È pure convinta che mi sarei suicidato per lei, ma davvero ha creduto a quella balla che le ho detto mentre guardavamo Romeo e Giulietta?
Ed è ancora fissata con quella storia che dovrei trasformarla. Ha perfino convinto Carlisle, ma è facile, lui prende cani e porci.
E adesso chi se ne libera più? Mi sa che dovrei suicidarmi davvero... chissà, forse se riesco a provocare abbastanza il lupo mannaro ci pensa lui...

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Questo è più scemo di lei, lo provoco in tutte le maniere e lui niente, almeno lei si convincesse a mettersi con lui, ma è proprio fissata con me. Ma che ho fatto di male? Tutti questi anni spesi a cacciare leoni di montagna invece che umani e questo è quello che mi merito? Questa faccenda del karma non va come dovrebbe.
Continuo a cercare scuse per non farla trasformare.
Però ho capito il trucco: le faccio una proposta di matrimonio, sono sicuro che dirà di no.

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Evviva, ha detto di no!

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Ma non ci credo, è riuscita a scatenarci contro tutti i "vampiri" del creato e anche qualcuno che nemmeno c’era, nel creato. Ma come si fa? È una maledizione fatta donna questa!
Ho colto l’occasione per allearmi coi lupi sperando che con la vicinanza lei se lo prendesse o almeno lui mangiasse la foglia, ma non c’è stato verso, lui si è quasi fatto ammazzare e lei sta meglio che mai.

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Porca miseria, ha cambiato idea sul matrimonio!

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Quell’idiota di un lupo è sparito dalla circolazione. Sono riuscito a farlo venire almeno al matrimonio, sperando che me lo rovinasse e lo mandasse all’aria, ma non c’è stato niente da fare.
Mi tocca pure la luna di miele.
La porto all’isola di Esme, se sono fortunato se la mangia uno squalo. Alla peggio, la prima notte di nozze muore durante l’amplesso, visto che ha questa fissa di volerlo fare da umana.

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Niente squalo, niente amplesso mortale, e sì che mi sono impegnato, la vita fa schifo.

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Assurdo, è rimasta incinta! Solo da lei ci si poteva aspettare una cosa del genere!
La buona notizia è che non sopravviverà alla gravidanza, e testarda com’è non ci sarà verso di fargliela interrompere. Comunque reciterò la parte, altrimenti è troppo ovvio.

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Sì, sì, è testarda come previsto, sarò presto un vedovo consolabile!

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Ecco, adesso se ne sono usciti con questa storia di trasformarla appena il bambino nasce. Ho un’idea, speriamo che funzioni.

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Fallimento completo, nonostante abbia abbondato col veleno (sono arrivato al punto di farle un’intracardiaca), è sopravvissuta lo stesso, peggio ancora sembra che non sia una maniaca sanguinaria, non ho nessuna scusa per farla a pezzi e bruciarla.
La bambina è adorabile, non ha preso da sua madre almeno.

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Quel pedofilo del lupo ha avuto l’imprinting con la bambina. Se sono fortunato, quando lo dico a mia moglie si ammazzano a vicenda.

...

Non sono fortunato.

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Ci ha DI NUOVO tirato addosso tutti i vampiri possibili. Vabbe’ ma adesso basta! Mi stavo organizzando per farla scappare all’estero con la bambina con la scusa di un’idea di Alice, ma come al solito non ha capito un tubo e stava per mandarci il lupo.

...

Tutto tornato tranquillo. Prevista una gita in Brasile, solo per svago adesso visto che ormai della bambina sappiamo tutto.
La foresta amazzonica è grande, mi perderò, ho già deciso. Chissà se riesco a rifarmi una vita dall’altra parte del mondo, magari al polo. Comunque sia, non sentirete più parlare di me.

lunedì 4 maggio 2009

La cantina

Ho passato l’infanzia a domandarmi che cosa ci fosse nella cantina.
La porta da cui vi si aveva accesso, vecchia e scrostata, era come una cicatrice nella parete immacolata della cucina. No, meglio, come una crosta, di quelle che non dovrebbero essere stuzzicate e inevitabilmente finiscono con l’attrarre l’attenzione.
Quando avevo chiesto a mia madre perché non la aprissimo mai, mi aveva risposto che la chiave era andata perduta. Nella mia ingenuità di bambino non mi ero neppure domandato perché non fosse mai stato chiamato un fabbro per cambiare la serratura, mi ero semplicemente accontentato della risposta. Ma la curiosità era rimasta.
Avevo forse quattordici anni quando, spinto da un altro genere di curiosità, approfittai di un’assenza dei miei genitori per mettermi a frugare nei cassetti privati di mio padre, quelli in cui non avrei mai dovuto ficcare il naso.
Quello che speravo di trovare era magari qualche rivista porno… invece mi lasciai attrarre da uno strano libretto nero che sembrava rilegato in pelle, cacciato in fondo a un cassetto. Lo tirai fuori, dimenticandomi subito dello scopo originario della mia ricerca, e credo si possa immaginare la mia sorpresa quando vidi che all’estremità del nastro rosso che faceva da segnalibro era annodata una chiave, vecchia e annerita dal tempo.
La mia mente tornò subito a quella porta chiusa, dietro cui la mia mente aveva negli anni immaginato si annidasse ogni sorta di mistero, dalla stanza di Barbablù al tesoro dei pirati. Fui tentato di andare subito in cucina per provare la mia nuova scoperta, ma decisi prima di sfogliare il libro a cui era stata legata. Lo aprii proprio dove si trovava la fettuccia, restando sorpreso nello scoprire che era scritto a mano. Parole incomprensibili e strani disegni erano tracciati sulle pagine con un inchiostro che il tempo aveva reso marrone.
Avevo appena iniziato, con scarso successo, a cercare di decifrarne il contenuto, quando sentii l’auto di mio padre entrare nel vialetto. Immediatamente rimisi tutto quanto come l’avevo trovato, e mentre lo facevo già pensavo a quando avrei avuto la prossima possibilità di continuare le mie indagini.
Quella notte feci sogni confusi, sognai libri, chiavi e la porta della cantina, sempre lei. Alla fine, stranamente, sognai di essere seduto sul pavimento, nudo, sopra uno dei simboli che avevo visto nel libro, mentre delle persone attorno a me cantavano una nenia tenendo in mano delle candele nere. Nel sogno piangevo, anche se non ero io a piangere; una cosa che, come spesso accade, in quello stato onirico aveva una sua logica privata e ineccepibile che mai avrei saputo spiegare una volta sveglio.
Passò diverso tempo senza che mi venisse fornita alcuna nuova occasione per restare solo in casa e provare quella famigerata chiave.
Alla fine decisi che me ne sarei creata una da solo e una mattina, dopo essere sceso dall’autobus che prendevo per andare a scuola, attesi il tempo necessario per non essere notato e salii sul primo mezzo che faceva il percorso inverso.
Contavo di trovare la casa vuota. I miei genitori avrebbero dovuto essere al lavoro e avevo scelto di proposito l’unico giorno del mese in cui in casa non avrebbe dovuto esserci nessun altro: né la signora che al mattino si occupava delle pulizie quotidiane, né gli addetti della ditta che badava al giardino e alle pulizie su larga scala, che venivano durante i giorni liberi della prima, ma solo tre volte al mese.
Rimasi attonito quando, sul punto di aprire il cancello del vialetto, scorsi la macchina di mio padre parcheggiata vicino alla casa e vidi la sua schiena sparire oltre la porta d’ingresso. Notai a malapena che procedeva curvo, come se stesse trasportando qualcosa di pesante. In realtà, la cosa che più mi premeva in quel momento era che non mi vedesse, e non certo per le mie intenzioni, bensì per evitare la ramanzina che sicuramente mi sarei preso per aver marinato la scuola ed essermi fatto scoprire.
Stavo ancora riflettendo sul da farsi, nascosto dietro un albero dal lato opposto della strada, quando, neanche dieci minuti dopo, vidi i miei uscire, mettersi in macchina e andare via, con mio grande sollievo.
Attesi ancora un po’, per sicurezza, prima di entrare a mia volta.
Subito mi diressi nella stanza di mio padre, ripescando il libro esattamente da dove l’avevo lasciato l’ultima volta. Ripresi a sfogliarlo, ma le parole che conteneva non avevano acquistato un maggior senso nel frattempo, e rinunciai ben presto a cercare di comprenderle. Dopo tutto, non erano loro a interessarmi veramente.
Tenendo la chiave in mano e il libro per un angolo mi alzai per andare in cucina e qualcosa scivolò fuori dalle pagine, finendo sul pavimento. Fogli ripiegati. Li aprii per curiosità lungo il tragitto, scoprendo che si trattava di esiti di un qualche esame medico che mi riguardava, e stupendomi per lo strano posto in cui erano stati riposti. Per il resto, quello che contenevano non aveva molto più senso per me delle strane parole del libro, e mi suscitava ancor meno interesse.
Così, raggiunsi infine la mia agognata meta. Col cuore in gola e le mani tremanti per l’emozione di risolvere un interrogativo che mi angustiava da così tanto tempo, avvicinai la chiave alla toppa, pensando solo per un istante alla delusione che avrei provato se si fosse rivelata del tutto estranea a quella porta. Ma così non fu.
La chiave ruotò senza il minimo intoppo e la serratura scattò producendo a malapena un paio di scatti sordi e attutiti. Poi la porta si spalancò senza il minimo sforzo da parte mia, facendomi trasalire più che se avesse cigolato sinistramente, come in realtà mi aspettavo che avrebbe fatto. Per un attimo quasi credetti che si fosse aperta da sola, dandomi poi dello stupido quando verificai che si limitava a essere molto ben oliata.
Davanti a me si trovavano delle scale dirette verso il basso, non una grande sorpresa dopo tutto. La luce che entrava in cucina riusciva a illuminare solo i primi due o tre scalini, il resto si perdeva nel buio sottostante.
Cercai a tentoni un interruttore, senza trovarlo.
Non avevo una torcia, né avrei saputo dove procurarmene una sul momento, eppure la mia curiosità vinse la paura e mi spinse a procedere comunque, scendendo un gradino alla volta, con una mano sempre a contatto con la parete, come se ciò bastasse a proteggermi da ben più che un semplice scivolone.
Ero appena uscito dalla zona illuminata, quando venni aggredito dal fetore, quasi che la luce riuscisse a tenerlo lontano assieme all’oscurità. Era un odore pestilenziale che non avevo mai sentito prima, dolciastro e soffocante. Dovetti usare tutta la mia forza di volontà per non piegarmi in due e vomitare. Ma non fu sufficiente a fermarmi.
Trattenendo il fiato, scesi un altro scalino, e improvvisamente vidi venirmi incontro una sagoma pallida che scaturiva dal buio come uno spettro, urlando qualcosa di incomprensibile.
Urlai a mia volta, non so neppure cosa, e mi ritrassi di scatto, terrorizzato, inciampando nello scalino che avevo appena lasciato e finendovi seduto, praticamente senza accorgermene.
Scalciando, camminando su mani e piedi, riuscii a risalire la scala, mentre l’orrida creatura continuava ad avanzare verso di me con movimenti innaturali, emettendo mugolii che alle mie orecchie suonavano come oscenità.
Ero quasi tornato alla porta quando mi fu addosso.
Me la vidi venire incontro come se avesse voluto azzannarmi, e trovai in qualche modo il coraggio di unire i piedi e colpirla con tutta la forza che avevo.
Il mondo parve congelarsi intorno a me in un istante eterno.
Vidi l’essere entrare nel cono di luce, distinguendo ora il suo volto, quello di un ragazzino della mia età o poco più giovane, sporco di polvere e lacrime, imbavagliato con uno straccio che gli impediva di parlare. Le braccia sparivano dietro la schiena, le gambe erano curiosamente unite, come se stesse saltellando più che camminando.
Poi il tempo tornò a scorrere e lo vidi cadere all’indietro nelle tenebre, scomparendo alla vista.
Quasi mi tuffai nel tentativo, inutile, di afferrarlo. Finii in ginocchio sulle scale, talmente sporto in avanti da rischiare di cadere a mia volta, con un braccio teso ad afferrare il nulla.
Non riuscivo a scorgere l’inatteso ospite della mia cantina, e fui sul punto di rialzarmi e scendere per cercarlo, quando il mio sguardo intercettò una strana luce che si spostava in basso, di fronte a me. Mi fu subito chiaro che non si trattava di una torcia elettrica o di una candela, sembrava più una sorta di fosforescenza che strisciava verso il centro della stanza, diventando sempre più visibile.
Poi lo vidi.
Anche se l’immagine rimase impressa nella mia mente in modo indelebile, tormentando i miei sogni per gli anni a venire, non riuscirei mai a descrivere la cosa che vidi arrancare sul pavimento della cantina, né l’orrore puro che mi raggelò il sangue mentre la guardavo avvicinarsi a quello che doveva essere il ragazzo che avevo spinto giù.
Il ricordo di ciò che accadde dopo è invece molto più confuso.
So che in qualche modo riuscii a uscire, chiudere la porta e rimettere a posto la chiave, non ricordo però se accadde prima o dopo che l’abominio raggiungesse la sua preda. Talvolta mi passa davanti agli occhi un’immagine vivida e fin troppo orribile di migliaia di bocche deformi e di zanne che affondano nelle carni di un ragazzo terrorizzato, che ancora non so se considerare un ricordo o un parto della mia fantasia.
So che in un qualche momento di quell’ordalia compresi in un attimo, sorprendendomene io stesso, cosa era accaduto in quella cantina anni prima e cosa vi accadeva ora una volta al mese, quando nessun estraneo era in casa a poter osservare. Cosa i miei genitori avevano fatto perché io vivessi.

Ho passato l’infanzia a domandarmi che cosa ci fosse nella cantina. Ora lo so.

giovedì 23 aprile 2009

La Sveglia

Gideon era seduto sul suo letto, perso in contemplazione della splendida figura femminile che aveva di fronte, le cui sinuosità erano drappeggiate dal lenzuolo che tratteneva davanti a sé con le mani giunte, in un provocante atteggiamento di falso pudore.
Lei avanzava con movenze feline, mettendo lentamente un piede davanti all’altro con estrema e sensuale grazia, finché, giunta a un solo passo da lui, lasciò cadere il lenzuolo, mostrandogli il suo corpo nudo, e dischiuse le labbra per dirgli…
"Tii Tii Tii Tii Tii"
Lui la cinse a sé. "Sì, dolcezza, tutto quello che vuoi." le disse in tono lascivo.
"Tii Tii Tii Tii Tii" ripeté lei, squillante.
"Sììì, sììì, amore, giochiamo alla sveglia e all’addormentato… dov’è il tuo pulsante, eh? Dov’è il tuo pulsante?"
"Ah ma allora sei proprio scemo! È la sveglia sul serio!" protestò lei, e tirando di nuovo su il lenzuolo se ne uscì offesa dal sogno.
"Tii Tii Tii Tii Tii"
Brontolando, mentre si domandava in un angolo della mente il perché della sveglia, Gideon sferrò una manata nella direzione del comodino, mancandolo clamorosamente.
"Tii Tii Tii Tii Tii"
Tentò di nuovo, e stavolta impattò con qualcosa. La brocca dell’acqua si rovesciò, inondando il libro che aveva accanto e l’orologio da polso poggiato lì vicino.
"Tii Tii Tii Tii Tii"
Al terzo tentativo, prese in pieno lo spigolo del comodino. Si rizzò a sedere sul letto, scuotendo la mano in alto e in basso come se potesse scrollarsi di dosso il dolore.
"Tii Tii Tii Tii Tii"
Infine aprì gli occhi. Guardò il comodino. Non lo vide. Era buio pesto. A tentoni ripescò, letteralmente, il suo orologio, bagnato zuppo. Fortuna che gli era stato garantito per subacqueo, o sarebbe stato da buttare.
Premette il pulsante della lucina interna, per vedere l’ora, e ne ottenne uno spruzzetto d’acqua in un occhio.
"Tii Tii Tii Tii Tii"
Si asciugò col dorso della mano e poi la allungò per accedere la luce. Sul comodino, la brocca oscillava pericolosamente lungo il bordo. Il libro era immerso nell’acqua, meno male che era Moby Dick. Della sveglia nessuna traccia.
L’orologio segnava le goccia-bollicina-bollicina-chiazza.
"Tii Tii Tii Tii Tii"
Si guardò intorno, e infine localizzò l’aggeggio infernale in cima alla libreria, dall’altro lato del letto. Si arrampicò in puro stile King Kong, l’afferrò e guardò l’ora. Le cinque di mattina. E perché aveva messo la sveglia alle cinque di mattina?
"Tii Tii Tii Tii Tii"
In quell’istante si rese conto che la sveglia non stava suonando. In effetti, a ben vedere, era puntata per le sette. Perché poi avesse messo la sveglia alle sette restava comunque un mistero. Che mai poteva aver da fare così presto?
"Tii Tii Tii Tii Tii"
Eh… però qualcosa che suonava c’era! Realizzò che il suono veniva dalla tasca posteriore del suo pigiama. Il cellulare! Doveva essersi segnato un impegno in agenda, ecco perché suonava! Solo che non riusciva proprio a ricordarsi cosa fosse.
"Tii Tii Tii Tii Tii"
Be’… del resto era per quello che l’aveva messo in agenda, per ricordarselo, giusto?
Estrasse il telefonino dalla tasca e osservò lo schermo, dove lampeggiava la nota che si era scritto: "Ricorda di staccare la sveglia prima che suoni, non hai niente da fare alle sette."

domenica 5 aprile 2009

Influenza

«ET-CCCIUUUU !!!» il suono rimbombò nella stanza come un colpo di artiglieria, e la testa di Jack prese a pulsare allo stesso ritmo. Il ragazzo tentò di riprendere fiato, ma venne interrotto da un improvviso accesso di tosse secca e fastidiosa che lo lasciò sfiatato e ansimante.
Si avvolse più stretto nella coperta che aveva addosso, rinunciando perfino ad asciugarsi le lacrime che gli scendevano dagli occhi per non doversi scoprire le mani. In qualche modo riuscì a prendere il telecomando senza abbandonare il rifugio della coperta, e accese la televisione.
“… mia di influenza sta propagandosi a macchia d’olio nel continente. – stava dicendo lo speaker del telegiornale mentre sul video scorrevano scene di repertorio di gente messa non molto meglio, se non peggio, di Jack stesso – Finora i trattamenti antibiotici si sono dimostrati…”
La porta alle spalle di Jack si spalancò di botto calamitando la sua attenzione.
“Buongiorno!” annunciò sua madre entrando, con l’aria di chi ha appena vinto la lotteria, un sorriso da orecchio a orecchio. Lui si chiese cosa mai ci fosse di buono in quel giorno, e rispose con un mugugno incomprensibile.
“Come ci sentiamo oggi?” chiese ancora sua madre, usando il plurale come se condividesse le sue sofferenze.
“Bale.” bofonchiò lui, ma la donna era passata oltre e non lo stava ascoltando. La osservò con terrore mentre si avvicinava alla finestra e la spalancava.
“Ba babba! – protestò, odiando ogni singolo suono nasale che si ritrovava a emettere – Io sdo bale!”
“Quante storie! Se non fai cambiare un po’ l’aria non guarirai mai!” lo zittì sua madre, scaraventandosi poi fuori dalla stanza e chiudendosi la porta alle spalle.
Jack sospirò, cosa che non gli riuscì troppo bene, e si obbligò a scendere dal letto per andare a porre rimedio alle strane idee della madre.
Però non mi era parsa tanto ottimista quando ce l’aveva lei l’influenza – pensò mentre strisciava i piedi verso il lato opposto della stanza. Era quasi giunto quando inciampò nella coperta, che si era guardato bene dal togliersi di dosso, e finì lungo disteso in terra. Fece per rialzarsi e prese in pieno con la nuca il vetro aperto, rimbalzando indietro come uno strano incrocio tra una palla e un sacco di patate.
“Ba porga biseria!” imprecò mentre si metteva a quattro zampe per poi tornare in piedi con maggior cautela.
Chiuse la dannata finestra e se ne tornò al letto, su cui si sedette nuovamente.
“… tempo, alcuni soggetti hanno per…” diceva il giornalista un attimo prima che Jack cambiasse canale. L’immagine sullo schermo venne sostituita da quella di un affarino peloso che litigava con un serpente grosso il doppio di lui. Jack ebbe il tempo di sentire “… la mang…” prima di decidere che quella trasmissione non faceva per lui e cambiare nuovamente.
Al posto degli animali apparve una strana animazione, una specie di ameba che veniva assalita da qualcosa che assomigliava a un modulo per l’atterraggio lunare appena abbozzato. “… i virus sostituiscono il DNA delle cellule con…”
Jack si affrettò a cambiare di nuovo, ritrovandosi a osservare una Nicole Kidman in evidente stato alterato che cercava di rapire un bambino. Aveva già visto quel film e non aveva alcuna voglia di rivederlo, per cui spense la televisione e si voltò verso il comodino per prendere il bicchiere e bere un sorso d’acqua.
La prima parte si rivelò facile, la seconda impossibile, perché il bicchiere era vuoto.
“Uff!” sbuffò Jack – almeno quello gli riusciva ancora – e si alzò per andare a prendersi da bere di sotto. Questa volta fece attenzione a sollevare a sufficienza la coperta prima ancora di girare attorno al letto e imboccare la porta. Scese uno scalino alla volta e arrivò a pochi metri dalla porta della cucina quando sentì delle voci provenire proprio da lì, e si bloccò non riuscendo a riconoscerle.
“Quanto credi che gli ci vorrà?” sentì dire da una voce femminile e arrotondata, che gli ricordava molto quella di sua madre, ma al tempo stesso non era la sua.
“Non molto ancora. Un giorno o due e poi anche lui sarà completo.” rispose quello che era evidentemente un uomo. Non suo padre, a meno che non gli si fosse improvvisamente modificata la laringe, ma pure non tanto diverso da lui.
Cercando di non fare rumore, Jack fece qualche altro passo e azzardò un’occhiata oltre lo stipite della porta, tenendosi il più possibile nascosto. Quello che vide, per poco non lo fece saltare indietro, e a stento riuscì a trattenere un grido.
Due… creature, non c’era altro modo di definirle… si trovavano nella sua casa. Avevano pelle verde e squamata, come quella dei serpenti, occhi gialli e sporgenti, con pupille verticali a fessura e… indossavano i vestiti dei suoi genitori!
Gli esseri non parvero accorgersi di lui, e continuarono la loro conversazione.
“Sicuro che stia andando tutto bene?”
“Certo, ha tutti i sintomi, la trasformazione è già in atto ormai. Una volta che tutto il suo DNA sarà stato risequenziato…”
Jack si perse il resto della frase cercando di comprendere il senso di ciò che aveva sentito. Parlavano di lui? Possibile che quelli fossero…
I suoi ragionamenti vennero interrotti da una familiare quanto fastidiosa sensazione di prurito al naso. Di tutti i momenti in cui avrebbe potuto succedergli…
Prese a indietreggiare, cercando di trattenere lo starnuto il più possibile.
«ET-CCCIUUUU!!!»
SBAM!
Senza essere troppo sicuro di come fosse accaduto, si ritrovò a perdere l’equilibrio e atterrare di sedere sul pavimento. La caduta fu attutita dalla coperta, ma il vero problema era un altro, e non tardò a presentarsi. I due rettili umanoidi, infatti, sbucarono fuori dalla cucina un istante dopo… solo che non erano più rettili umanoidi, ma semplicemente i suoi genitori.
“Jack!” lo apostrofò la madre
“Stai bene?” gli chiese di rimando il padre
“Che è successo?”
“Ti sei fatto male?”
“Se volevi qualcosa potevi chiamarmi.”
L’improvvisa ondata di attenzioni era fin troppo sospetta perché Jack non percepisse che qualcosa non andava. Certo… anche l’aver visto i mostri rettiliformi in cucina era un indizio da non sottovalutare.
“Io… io…” prese a bofonchiare lui, cercando con lo sguardo il bicchiere che gli era sfuggito di mano. Lo individuò poco distante da lui; era atterrato su un angolo della coperta, che lo aveva salvato dall’andare in frantumi. Lo afferrò come fosse stato un salvagente in un mare in tempesta.
“Aggua! – esclamò – Ero sceso a breddere dell’aggua.”
“Dammi, te lo riempio.” replicò quella che sembrava sua madre, allungando una mano verso il bicchiere… o forse verso il suo braccio.
“Do, do, vaggio io.” rispose lui, indietreggiando per rialzarsi con le spalle alla parete.
Strisciò verso la cucina restando rasente al muro, e senza mai togliere gli occhi di dosso ai due finti genitori, che per conto loro si scambiarono alcune occhiate indecifrabili. Raggiunse il lavandino e aprì il rubinetto, iniziando a riempire il bicchiere con esasperata lentezza. Il suo sguardo dardeggiava ovunque nella stanza mentre tentava di decidere il da farsi. I due mostri erano ancora fermi sulla soglia.
All’improvviso, in un lampo di ispirazione, lasciò cadere il bicchiere nel lavello, sfilò un coltello dal ceppo poco distante e si diede a una fuga disperata in direzione della porta che dava nel cortile. Stava per afferrare la maniglia quando si ritrovò improvvisamente di fronte il rettile con gli abiti di sua madre.
“Dove stavi cercando di andare?” sibilò questo facendo saettare tra le labbra la sua lingua biforcuta, ogni pretesa di apparire umano oramai abbandonata.
Jack non si perse d’animo. Sollevò il coltello e lo piantò a fondo nel petto della creatura, facendone sprizzare del sangue verdastro che gli impregnò il pigiama. Si ritenne fortunato per non poterne sentire l’odore, immaginando che dovesse essere davvero disgustoso.
Due zampe artigliate gli afferrarono il polso, ma il sangue lo aveva reso abbastanza viscido da permettergli di sfuggire alla presa e sferrare una seconda coltellata, stavolta in uno degli orrendi occhi gialli del rettile, che si afflosciò al suolo come un sacco vuoto.
Per un attimo, Jack aveva dimenticato il secondo mostro, che immediatamente gli fu addosso. Ruotando su sé stesso meglio che poteva, il ragazzo lo ferì a un braccio con un veloce fendente, ma un istante dopo sentì un colpo al petto e si ritrovò a volare verso una parete. Ebbe appena il tempo di registrare che il mostro morto aveva nuovamente assunto le fattezze di sua madre prima di urtare violentemente la testa contro uno dei pensili della cucina e precipitare nel buio più assoluto.

Quando riaprì gli occhi stava fissando il pavimento. Quello della sua camera da letto.
Sbatté le palpebre un paio di volte, cercando di capire come fosse arrivato lì. La nuca gli faceva male, e così anche il petto, ma questa non era una grossa novità visti i frequenti accessi di tosse.
Tentò cautamente di rialzarsi. Uno spiffero freddo proveniente dalla finestra aperta gli soffiava sulla schiena, mentre una voce distorta parlava dal lato opposto della stanza. Ci mise qualche secondo a capire che si trattava della televisione.
“… lo stadio più acuto della malattia ha portato alcune vittime a soffrire di allucinazioni e perdere la cognizione dello spazio e del tempo, alcuni soggetti hanno perfino affermato di aver vissuto uno sbalzo temporale, tornando a loro dire indietro nel tempo di diversi minuti…”
Jack si rimise in piedi e chiuse la finestra, poi si tastò la nuca, trovandovi un bernoccolo in formazione. Era stato il pensile della cucina o l’anta della finestra a causarglielo?
Si guardò intorno, constatando che tutto era normale nella stanza. Il suo pigiama, per quanto possibile, era pulito; non c’erano tracce di sangue, né suo né dei mostri. Il bicchiere, vuoto, era al suo posto sul comodino.
Incerto, raggiunse la porta, la aprì e si affacciò.
“Babba?” chiamò
“Sì Jack, ti serve qualcosa?” gli rispose dopo qualche istante la voce della donna dal piano di sotto.
“Uh... do, do, diedde.” bofonchiò lui in risposta.
Possibile che si fosse sognato tutto quanto?
Al telegiornale avevano parlato di allucinazioni in effetti...
Ritornò a letto e si infilò sotto le coperte. Forse avrebbe fatto meglio a cercare di dormire.
Certo che tra la febbre e la botta il suo cervello gli aveva giocato veramente un brutto scherzo – pensò mentre scivolava nel sonno – sicuramente era rimasto influenzato dalla scene che aveva visto in televisione poco prima, tra serpenti, DNA e invasioni di alieni che sostituivano gli esseri umani.
Sì... non poteva che essere così... le scene che aveva visto... dopo aver chiuso la finestra...

giovedì 2 aprile 2009

Stati di Allucinazione

“Allora?”
La domanda giunse tanto improvvisa da fargli sgranare gli occhi, risvegliandolo dal suo torpore. Sollevò la testa e fissò l’ometto calvo e occhialuto che lo guardava dall’alto, poi abbassò lo sguardo sulle proprie braccia, ancora incrociate sulla scrivania, che gli avevano fatto da cuscino fino a poco prima.
“Eh? Cosa?” balbettò.
“Le pare il momento e il posto per dormire?!? – gli urlò contro l’ometto, spruzzando saliva peggio di un irrigatore da giardino – Vuole che la licenzi, per caso?”
“Ma che…? Licenziarmi? E quando mai…?” Sempre più confuso prese a guardarsi intorno. Davanti a lui, su uno schermo LCD, pipistrelli da cartone animato inseguivano una donnina discinta in quello che doveva probabilmente essere uno screensaver. Tutto lasciava pensare che si trovasse in un ufficio… ma a fare cosa? Lavorare? Lui? Ridicolo!
L’ometto, intanto, aveva ripreso a urlare. Lui neanche cercò di capire cosa. Allungò una mano e fece per prenderlo per il collo, ritrovandosi ad afferrare l’aria, perdere l’equilibrio per il troppo slancio e finire dritto in terra, sbattendo la faccia sul pavimento.Si rialzò, e un rivoletto di sangue gli scese dalle labbra.
L’ometto non c’era più. L’ufficio neanche. Ora si trovava di fronte a una grande lavagna nera, e una donna asciutta e segaligna con un paio di occhialetti a punta lo fissava con aria torva, agitando una bacchetta.
“Ha intenzione di venire all’interrogazione o no?”
Mentre si rialzava, la guardò con occhi fiammeggianti, che non parvero suscitare in lei la benché minima reazione.
“E si copra! Che diamine! Dove crede di essere?”
A quelle parole, abbassò lo sguardo e notò solo allora di essere praticamente nudo, a eccezione di un paio di ridicoli boxer su cui erano ricamati dei lupetti con un ciuccio in bocca. Senza neanche sapere perché, portò istintivamente le mani a coprirsi le parti basse.
“Ha studiato?” lo incitò la maestra
“No che non ho studiato, che ca…” venne interrotto da una bacchettata dritta sulle gengive. Qualcuno alle sue spalle lanciò un aeroplanino di carta che gli si infilò in un orecchio.
Si voltò di scatto, e nel farlo si ritrovò accidentalmente a infilare il braccio sotto quello di una perfetta sconosciuta vestita di bianco, che si girò e gli mostrò un sorriso a sessantaquattro denti, incurante del suo sguardo allucinato.
Davanti a lui si stendeva la scalinata di una chiesa, con un lungo tappeto rosso sangue che si snodava dall’altare fino a sotto i suoi piedi. Le campane suonavano a festa mentre dall’interno proveniva una musica inconfondibile.
Si rese conto quasi di sfuggita che i suoi boxer erano stati sostituiti da uno smoking impeccabile, completato da un ampio mantello nero abbastanza fuori luogo… no, a ben pensarci era tutto il resto a essere fuori luogo.
“Eh no! – sbottò – Questo è veramente troppo!”
Sfilò il braccio da quello della presunta sposa e fece una sorta di saltello, che nelle intenzioni avrebbe dovuto avere ben altro esito, ma che finì solamente per farlo cadere di nuovo faccia in terra.
Quando si risollevò, la testa gli faceva male e gli sembrava che tutto il mondo gli stesse girando attorno. Se non altro, però, era un mondo che conosceva.
Si stropicciò gli occhi, cercando poi di rimettere a fuoco… le pareti erano quelle del suo castello, la sua bara era lì a due passi. Sospirò di sollievo.
“Mai più, giuro mai più mangiare con uno sconosciuto senza prima un esame del sangue, tossici del piffero!”

mercoledì 25 marzo 2009

Aria di casa

Erano passati anni dall'ultima volta in cui aveva fatto ritorno al suo paese. Ogni volta si riprometteva che sarebbe stata l'ultima, che ne sarebbe rimasto lontano, ma poi succedeva sempre qualcosa che richiedeva la sua presenza, e si vedeva costretto a tornare.
Una volta lì, però, si immergeva subito in quell'aria familiare, così connaturata alle sue radici. Gli sembrava quasi di non essersene mai andato, e si domandava il perché della sua reticenza.
Il motivo di questo suo ultimo viaggio gli era sfuggito ormai di mente mentre, rispettando una sua personale tradizione, stava compiendo la solita visita al cimitero, un luogo che lo aveva infinitamente inquietato quando era un ragazzino.
Il suo paese non era molto grande, la gente che vi abitava sembrava quasi essere l'estrema estensione di poche famiglie allargatesi allo spasimo, e determinati cognomi, tra cui il suo, ricorrevano con enorme frequenza. Aggiungendo a ciò il fatto che portasse un nome estremamente comune, si poteva capire come in quasi ogni angolo di quel luogo di riposo vi fosse una lapide da cui il suo stesso nome lo fissava come un monito.
L'abitudine, tutta locale, di non porre foto dei cari estinti sulle tombe, di sicuro non migliorava l'atmosfera. Sarebbe stato ben diverso, più tranquillizzante forse, vedere il proprio nome sotto il volto di un perfetto sconosciuto. Sapere che là sotto c'era qualcuno che si chiamava come lui, ma non aveva il suo stesso volto.
Distrattamente prolungò la sua passeggiata fino alle zone più nuove del cimitero, dove le cappelle e le lapidi adornate lasciavano il posto a loculi incasellati come le finestre dei palazzi delle zone industriali.
Lo sguardo gli cadde sull'ennesima lastra su cui spiccava il suo nome, attratto dalla curiosa coincidenza della data di nascita del defunto, uguale alla sua. La sepoltura era recente, la data di morte risaliva a solo pochi giorni prima.
Si ritrovò a sfiorare con la mano i rilievi delle lettere sulla pietra tombale, ad accarezzare il marmo, stupendosi di non trovarlo freddo.
Poi le sue dita, seguite dalla mano, dal braccio e dal resto di lui, andarono oltre, oltre il nome, oltre la lapide, oltre il cemento.
E si ricordò perché era tornato.

venerdì 6 marzo 2009

Il patto

Seduto sul pavimento in pietra, al centro di un complicato simbolo circolare, osservava il pulviscolo danzare pigramente tra i raggi del primo sole, invidiando quell’inconsapevole libertà che a lui era negata.
I disegni arcani che lo circondavano apparivano innocui a chi non ne conosceva il significato, e lo erano per chi non ne subiva l’influenza. Lui non apparteneva a nessuna delle due categorie.
Allungò un braccio che si sarebbe potuto definire ossuto, se solo vi fossero state ossa in quel simulacro che chiamava corpo, e penetrò con un dito adunco e artigliato l’aria davanti a sé, come se avesse voluto saggiare per l’ennesima volta ciò che lo tratteneva. Giunto al limite del circolo, toccò qualcosa che non esisteva, se non per lui, ricevendone una sensazione di solidità e leggero disgusto.
Non sarebbe mai riuscito a uscire da lì con le sue sole forze. Del resto, non aveva importanza.
Quella prigione era una precauzione, nulla più, era ben altro a tenerlo bloccato in quel mondo a cui non apparteneva, costringendolo a servire un essere che considerava inferiore. Se anche fosse riuscito a fuggire, non avrebbe potuto andare lontano.
Ma il tempo passava in quel mondo, passava per tutti, anche per lui, sebbene non su tutti avesse lo stesso effetto. E quella sarebbe stata la chiave della sua liberazione… o della sua vendetta. Negli anni, aveva iniziato a desiderare sempre meno la prima e sempre più la seconda.
Anche quel giorno non dovette attendere molto prima di ricevere il familiare richiamo. Il suo “padrone” - quanto disprezzava la sola idea di poterne avere uno - aveva bisogno di lui per qualche inutile compito.
Percepì un cambiamento attorno a sé e seppe che la sua gabbia invisibile, per il momento, era aperta. Sgranchendosi le piccole ali membranose, apparentemente troppo piccole per poter sostenere il peso del suo corpo, si levò in volo e si diresse con maligna flemma verso la stanza da letto, dove l’uomo lo attendeva.
Fissò con odio quella figura canuta e raggrinzita, coperta fino al mento dalle pesanti coltri. Desiderò una volta ancora di poter porre fine alla sua misera vita, sapendo che comunque sarebbe terminata molto presto anche senza il suo intervento.
“Che vuoi stavolta, vecchio?” gli domandò con voce sgraziata. Aveva imparato a parlare in quel complicato modo dei mortali, facendo vibrare l’aria attraverso la gola, ma il risultato non si avvicinava neppure a quello di una voce umana.
“Vammi a prendere dell’acqua.” gli rispose il mago a fatica.
Ecco come si era ridotto. A fare il cameriere. Se almeno avesse potuto sfogarsi in qualche modo, portando caos e distruzione ai nemici del “padrone”, scatenando i suoi poteri contro qualcuno, o qualcosa… Invece: acqua.
Eseguì il compito che gli era stato richiesto, non potendo fare altrimenti, ma non volle perdere l’occasione di perorare ancora una volta la sua causa.
“Sei sempre più debole, vecchio. Stai per morire e lo sai. Puoi ancora liberarmi, farmi tornare al mio mondo.”
“E perché dovrei farlo?”
“Perché sai cosa farò una volta libero, se non mi rimanderai indietro.”
“Tu non sarai libero. Ricorda il patto.” grugnì l’uomo con più forza di quanta ne avesse in corpo, dovendosi poi interrompere per dar sfogo a un accesso di tosse.
Lui aspettò diligentemente che ricominciasse a parlare, anche se già conosceva le parole che avrebbe pronunciato.
“Hai accettato di non fare danno alcuno alla mia famiglia, e di servire fedelmente me e i miei discendenti. La mia morte non cambierà nulla.”
“La tua discendenza non sarà eterna.” gli ricordò.
“Questo è un problema a cui penserà mio figlio, e suo figlio dopo di lui. Sa cosa deve fare.”
“Ripensaci, vecchio. Se sarò libero, e non potrò tornare indietro, sarà tua la colpa di quello che accadrà.”
“Tu non sarai li…” urlò il mago, ma la voce gli si spezzò in gola mentre annaspava in cerca d’aria, poi il suo sguardo si spense. Il suo modo di vedere il mondo cambiò all’improvviso, e si rese conto di sentirsi diverso.
“Cosa mi hai fatto?” domandò al piccolo demone
“Nulla. Non posso farti alcun male, rammenti. Sei morto, ma non per mano mia.”
“E perché sono ancora qui?” gli chiese, constatando di essere non più sdraiato nel letto ma fluttuante poco sopra di esso. Temendo ciò che avrebbe visto, si rifiutò di abbassare lo sguardo verso il cuscino.
“Ti ho trattenuto io.”
“A che scopo? Non posso più liberarti ora.” La sua voce non era più debole e affaticata, sembrava aver ritrovato l’antico vigore.
“Lo so. Non hai più potere su di me, né purtroppo io su di te.”
“Allora lasciami andare.” protestò il fantasma.
“Lo farò, non posso trattenerti a lungo comunque. Ma volevo che tu sapessi una cosa prima di andare, vecchio.”
“Dilla, dunque, e lasciami.”
“Sappi, vecchio, - gli rispose - che avresti dovuto passare meno tempo ad assicurarti della mia fedeltà… e molto più a pensare a quella di tua moglie.”
E l’orrore negli occhi del fantasma, mentre svaniva con la comprensione di ciò che aveva appena udito, fu la prima gioia della sua nuova libertà.

giovedì 26 febbraio 2009

Punti di vista

James Seward lasciò il mondo dei vivi all'età di settantaquattro anni, senza traumi né dolore. Aveva vissuto una vita tranquilla, e tranquillo fu anche il momento della sua dipartita; lasciò il suo corpo in piena notte, mentre dormiva, senza neppure rendersene conto.
Fino alla mattina credette di essersi risvegliato e di non riuscire a riprendere sonno, ma non si sentiva stanco né assonnato, non aveva gli occhi pesanti come accade di solito a chi fatica ad addormentarsi, e non era neppure scomodo nella posizione in cui si trovava. Non avrebbe potuto cambiarla neppure volendo, ma visto che non sentiva il bisogno di farlo non lo avrebbe mai scoperto.
Fu solo quando sua figlia Angelica si recò da lui per dargli il buongiorno e avvisarlo che la colazione era pronta che si rese conto che qualcosa non andava. Per quanto lui le parlasse e le rispondesse, dopo un po’ anche ad alta voce, visto che pareva non riuscire a sentirlo, lei non se ne accorgeva affatto e continuava a chiamarlo e a scuoterlo leggermente per le spalle. A un certo punto notò che le venivano le lacrime agli occhi, e solo allora vide anche un'altra cosa che, fino a quel momento, non aveva scorto, o forse aveva preferito ignorare: la scena a cui stava assistendo la vedeva dall'alto, osservando il tutto come in uno strano filmato tridimensionale, e riusciva persino a vedere sé stesso sdraiato nel suo letto, inerte. Fu allora che comprese di essere morto, ma la cosa non lo intristì più di tanto. Prima o poi, si disse, doveva pur capitare e, del resto, non si sentiva affatto male, anzi… non era mai stato tanto bene in tutta la sua vita.

Partecipò al suo funerale più che altro per curiosità. Pensava che una cosa del genere non gli sarebbe mai capitata, e di sicuro non si sarebbe ripetuta. Osservò tutti i parenti e gli amici venuti a rendergli omaggio, bofonchiando alla vista di persone che non si erano mai degnate di fargli visita quando avrebbe potuto gradirlo e si presentavano ora che non gliene importava più nulla. Vide gente che chiacchierava allegramente, cosa che gli parve poco rispettosa, altra di cui a malapena ricordava nomi e volti, e tra loro qualcuno che piangeva a dirotto. Si chiese il motivo di tanta tristezza: in fondo, lui era l'unico ad aver perso qualcosa, e se non dispiaceva a lui che motivo avevano gli altri di disperarsi a tal punto? D'altra parte, comprese, questa era una verità che aveva potuto apprendere solo dopo aver oltrepassato la soglia della mortalità, perciò non poteva pretendere che altri condividessero le sue stesse sensazioni; anche lui si sarebbe comportato allo stesso modo, quand'era vivo, se uno dei suoi parenti più cari fosse trapassato. L'aver abbandonato le sue spoglie mortali aveva mutato impercettibilmente, ma a fondo, il suo modo di vedere il mondo, cancellato i lati negativi comuni a tutti gli esseri umani, così ora non avrebbe mai potuto piangere alla morte di qualcuno, poiché comprendeva che per lui era solo l'inizio di una vita diversa, forse migliore.

Seguì il corteo funebre fino al cimitero, ma non volle assistere al seppellimento della bara, più che altro perché aveva perso interesse. Sentì qualcosa di indefinibile che lo attraeva verso un punto lontano ma vicinissimo al luogo in cui si trovava, un concetto che in quel momento comprendeva pienamente ma che non sarebbe mai stato in grado di spiegare. Si affrettò a seguire il suo nuovo istinto e giunse così dall'altra parte.
Si ritrovò ben presto in un mondo totalmente diverso da quanto aveva mai potuto vedere o anche solo immaginare prima di allora. Era un luogo del tutto privo di materialità, dove tutto ciò che esisteva era pura energia, di un tipo che alcuni avrebbero potuto chiamare spirito ma che, comunque, non aveva uguale nel mondo dei viventi. Attorno a lui fluttuavano lievemente migliaia di aloni di luce chiara, dei colori più disparati che, come imparò poi, altro non erano che anime. Con la sua nuova sensibilità poteva guardare in ogni direzione, e ovunque ne scorgeva una moltitudine. Si accorse che, sebbene fossero apparentemente tutti uguali, poteva distinguerli l'uno dall'altro non meno di quanto avrebbe potuto fare con i suoi tre figli fino a poco tempo prima. In un secondo tempo si rese conto che anche lui, ormai, era identico a ognuno di quegli aloni, eppure profondamente diverso. Non era più James Seward, non interamente almeno, ma rimaneva un'entità unica e distinta dalle altre, come ognuna delle anime che lo attorniavano.

Di tanto in tanto riattraversava il confine per andare a osservare i suoi parenti rimasti ancora in vita, ma non lo faceva spesso. Sapeva di alcuni che avevano voluto rimanere da quella parte anche dopo il trapasso, ma lui si trovava benissimo nel mondo delle anime, e se si allontanava era solo per controllare che i suoi cari stessero bene e non avessero bisogno di nulla. Per il resto, restava il più possibile in quel nuovo mondo senza tempo, che imparava a conoscere sempre meglio.
Aveva appreso quasi subito che il modo di comunicare tra anime era molto diverso rispetto a quello utilizzato dai mortali, per quanto i risultati fossero più o meno gli stessi. Il passaggio delle informazioni avveniva sotto forma di trasmissione emotiva, mentre lo stato emozionale di ogni anima era segnalato da un cambiamento del suo colore, che mutava a ogni anche minima variazione dell'umore. Ben presto fu in grado di distinguere e comprendere ogni tonalità cromatica di quegli aloni luminosi, e capì che nessuno di loro avrebbe mai potuto mentire, poiché il suo colore lo avrebbe irrimediabilmente rivelato.

Tali e tante erano le cose da apprendere nella sua nuova esistenza che ormai nessuna, credeva, sarebbe stata più in grado di stupirlo, poiché si aspettava sempre qualche novità, o qualche dettaglio che non aveva immaginato in precedenza. Eppure, gli capitò dopo un tempo imprecisato di assistere a qualcosa che risvegliò in lui il sentimento di stupore che credeva ormai di aver perduto per sempre.
Era intento a godersi ogni istante della sua nuova condizione, quando si accorse di una moltitudine di anime che si radunavano in corrispondenza di uno degli innumerevoli passaggi nel confine col mondo mortale. Non aveva mai visto tante anime insieme, neppure nel giorno in cui lo avevano accolto tra loro, e molte tra esse avevano i toni cupi del dispiacere e della tristezza. Era davvero qualcosa su cui indagare, così si avvicinò fluttuando al gruppo e si avvide che dinnanzi a tutti vi era un alone leggermente discosto dagli altri, apparentemente in attesa di poter valicare il confine. Le anime più vicine a questi rifulgevano dei colori più tristi che gli fosse mai capitato di vedere, e la cosa gli parve stranissima, abituato com'era a un mondo in cui nessuno era meno che tranquillo e felice.
Raggiunse uno dei presenti e, nel loro linguaggio senza parole, gli domandò cosa stesse mai accadendo. Questi rimase inerte per un attimo, mentre l'anima più lontana scompariva oltre le nebbie che davano accesso all'altro mondo. Poi, mentre il suo colore si caricava di un tono leggermente più spento, a indicare il dolore che l'evento gli aveva arrecato, rispose senza un suono "Ahimè, poverino. È appena nato."

venerdì 20 febbraio 2009

Specchio Specchio

La regina era infelice.
Aveva sotto di sé un piccolo regno, non particolarmente ricco, che non le consentiva neppure di ricavare molto con le tasse.
Aveva moltissimi amanti, ma nessuno che l’amasse veramente o la rendesse felice al di fuori del letto, ed era sicura che tutti loro stessero con lei solo perché era bella e, soprattutto, era la regina.
Tutto questo non le bastava più, se mai l’aveva fatto.
Per questo aveva impiegato anni a studiare le arti arcane al solo scopo di trovare le risposte di cui aveva bisogno, e alla fine aveva impiegato tutte le sue risorse per creare una pozione che l’avrebbe aiutata a risolvere il suo problema.
Brillante come argento, il liquido era ora all’interno di una boccetta, e quando lei lo versò sulla superficie dell’elaborato specchio che teneva da sempre nella sua camera, questa parve assimilarlo, come fosse stata acqua versata in un laghetto.
Vi fu qualche increspatura, quindi la lastra di vetro tornò tranquilla e immota come sempre.
La regina rimise lo specchio contro la parete, osservò per un po’ il suo riflesso, quasi temesse di mettere alla prova il suo risultato, e infine si decise.
“Specchio, specchio, mostrami dove potrò trovare l’amore.” ordinò.
Non accadde nulla, lo specchio continuava a mostrare il suo riflesso.
Innervosita, la regina decise di provare ancora.
“Specchio, specchio, mostrami dove potrò trovare la felicità.”
Ancora una volta, nello specchio nulla cambiò.
Ormai decisamente alterata, la regina si dispose a fare un ultimo tentativo.
“Specchio, specchio, mostrami dove potrò trovare la ricchezza.”
Quando, nuovamente, nello specchio non vide altro che il suo volto, la regina cedette alla collera, afferrò un pesante soprammobile e fece per scagliarlo contro il vetro, bloccandosi all’ultimo istante quando si rese conto che il suo riflesso era invece rimasto fermo, e stava iniziando a parlare.
“È questa, dunque, la tua riconoscenza?” domandò la regina dall’altra parte.
“Riconoscenza? - quasi ringhiò, ben poco regalmente, quella vera - E per cosa? Non hai risposto a una sola delle mie richieste!”
“Non è così. Mi hai chiesto dove trovare l’amore, e te l’ho mostrato. Mi hai chiesto dove trovare la felicità, e te l’ho mostrato. Mi hai…”
La regina lo interruppe.
“Non mi hai mostrato nient’altro che il mio riflesso!”
“È così, infatti. Perché quello che cerchi è solo dentro di te che potrai trovarlo.”
L’espressione della regina cambiò, mentre la collera scompariva per lasciare posto dapprima a stupore, poi a una vaga confusione quando si rese conto di un’incongruenza.
“Capisco l’amore e la felicità - disse ancora - ma come potrei mai trovare la ricchezza dentro di me?”
“Quella, in effetti, no. - rispose lo specchio - … ma se solo tu ti decidessi a farti pagare invece di darla via gratis…”

martedì 17 febbraio 2009

Nocturnal

She rose and fell,
as darkness falls
She ran, she hid,
and heard those calls
I want to play
I want to play
with you

She shrieked, and cried
to no avail
She wished, she dreamed
herself away
I want to play
I want to play
with you

She woke and looked,
then turned her head
She breathed, she sighed.
He came and said
I want to play
I want to play
with you

domenica 15 febbraio 2009

Lo Straniero

Principessa di un regno ormai morto, stava in piedi sul balcone del palazzo, la testa rivolta in alto a osservare le stelle che punteggiavano il cielo notturno.
Il bianco dei suoi lunghi abiti e il biondo dei lisci capelli, che quasi toccavano il pavimento, contrastavano l’oscurità della notte e il nero della sua anima.
Il paese su cui un tempo aveva regnato era insonne quella notte. Nessuno di coloro che l’avevano amata e temuta stava dormendo il sonno del giusto.
Li vedeva, in lontananza, marciare verso il castello, impugnando torce e forconi, come se armi così rozze potessero veramente rappresentare una minaccia per la loro regina. A lungo aveva aspettato che un simile giorno giungesse, ed era ormai convinta che non sarebbe più accaduto.
Il terrore, le vittime, i sacrifici, niente di tutto ciò era riuscito a smuoverli prima, a spingerli a rivoltarsi al suo giogo. Perché ora, quindi? Cosa era cambiato? Cosa li animava, nella loro folle e suicida ribellione?
“Ti amano.”
La voce che proveniva dall’interno della stanza, rompendo il silenzio, la colse del tutto alla sprovvista. Qualcuno era riuscito ad arrivare fin lì senza che lei se ne accorgesse, era semplicemente inaudito, impossibile!
Si voltò con la fluidità di una pantera, gli occhi scintillanti fissarono lo sconosciuto dalle vesti nere come la notte che stava lì a osservarla, un enigmatico sorriso stampato sul volto.
Le parve di cogliere nei suoi occhi un riflesso del suo stesso sguardo, quello sguardo che poteva immobilizzare una vittima, incantarla, farle amare ogni singolo istante della propria morte.
“Chi sei?” gli chiese con un sibilo ferino.
“Non puoi conoscere il mio nome. Non ancora.” rispose lui suadente, senza mai smettere di fissarla o sorriderle.
Lei scivolò nella stanza senza un suono, in un batter di ciglia, talmente veloce che nessun occhio mortale avrebbe potuto vederla muoversi.
Si ritrovò con le braccia sollevate a pochi millimetri dal volto di lui, le unghie incurvate e mutate in artigli, i polsi saldamente serrati in due mani possenti che le impedivano di sferrare il suo attacco letale.
La pelle dell’uomo era calda, il contatto con la sua, fredda come ghiaccio, come la morte stessa, sembrava quasi bruciare, e al tempo stesso era piacevole, il ricordo di un’umanità sopita ma mai distrutta.
Lui la costrinse ad abbassare le braccia. I loro occhi si incrociarono, così simili e così diversi allo stesso tempo.
“Sei venuto per uccidermi?” gli chiese. Il suo tono era quasi rassegnato. Forse era giunto il suo momento, aveva ingannato la morte tanto a lungo, non era forse tempo di abbandonarsi al suo freddo abbraccio, come avevano dovuto fare tutti coloro che l’avevano aiutata, non per scelta, a evitarlo?
“Sono venuto a guardare il cielo assieme a te.”
La fece ruotare, lentamente, e assieme a lei si incamminò verso il balcone. Lei non oppose resistenza. Qualcosa in quell’uomo, se di questo si trattava, sembrava in grado di superare ogni sua difesa.
Quando furono usciti, lui le lasciò andare i polsi e, standole alle spalle, la cinse in un abbraccio che era al tempo stesso tenero e tanto forte da impedirle di liberarsi.
“Guarda – le disse – è l’alba.”
Lei cercò di sfuggire alla sua presa, terrorizzata, senza riuscirvi. Poté soltanto voltare il capo, come se il solo distogliere gli occhi potesse servire a salvarla dal destino che la attendeva quando la luce del sole avrebbe raggiunto la sua pelle candida.
Si ritrovò a sfiorare con le labbra la gola di lui. Sentì la familiare pulsazione del sangue nelle vene, il sapore dolce e salato della sua pelle.
“Fallo. – le disse lui – È per questo che sono qui.”
Lei non capì, ma non era di capire che aveva bisogno. Quasi sentiva il calore dell’astro che l’avrebbe distrutta crescere nel cielo sopra di lei, e fece tutto ciò che sapeva e poteva fare. Aprì la bocca e baciò il suo collo, poi affondò gli aguzzi canini nella sua pelle e ne trasse il denso liquido che per lei, più che per ogni altro, era vita.
Le scese nella gola come fuoco liquido, una sensazione che non aveva mai provato. Una mano dietro la nuca le impedì di allontanarsi, di smettere di suggere quel dolce veleno. Ormai scorreva dentro di lei senza alcuno sforzo da parte sua, le incendiava la gola e la pelle, più di quanto il sole avrebbe potuto fare. Ma non stava morendo, no.
Stava tornando alla vita.
Si perse in quella sensazione di dolore e piacere, finché il battito frenetico del cuore nel suo petto – quel cuore fermo ormai da decenni – la fece trasalire.
Lui le carezzò le guance, sollevandole il volto verso la sfera infuocata che ora dominava il cielo. La luce le ferì gli occhi, ma fu solo un istante, e lacrime che ormai aveva dimenticato le rigarono il volto.
Fuori dalle mura del castello, i contadini erano testimoni di un evento senza precedenti, che riuscivano a comprendere solo col cuore e non con la mente.
“Salutate la vostra regina, e la sua nuova vita.” li esortò l’uomo. Un grido di gioia si levò dalla folla.
“Come possono…? – farfugliò lei – Dopo tutto quello che ho fatto…”
“Te l’ho già detto. Ti amano. Non è qualcosa su cui io possa sbagliare.”
“Ma tu…?”
“Shhh!” la zittì lui, portandosi un dito alle labbra. Poi, con quelle stesse labbra, la baciò.

giovedì 12 febbraio 2009

Cappuccetto Rosso (reprise)

C’era una volta un giovane lupo. Era gentile, carino ed educato, ma come tutti i cuccioli era irruente, e talvolta sprovveduto.
Un giorno, il lupo chiese a sua madre se poteva andare a giocare nel bosco.
“Va’ pure. - gli rispose mamma lupa - Ma mi raccomando, resta nel folto degli alberi e sta’ lontano dal sentiero.”
“Certo mamma, farò come dici tu.” disse lui, sebbene in realtà a malapena l’avesse udita.
Fu così che giocando, correndo e ruzzolando spensierato, il lupo si ritrovò sul sentiero che attraversava il bosco, e lì incontrò una ragazza che indossava una mantellina rossa, col cappuccio tirato sopra la testa, e portava un paniere di vimini coperto da uno strofinaccio.
Mai prima di allora aveva incontrato un essere umano in vita sua, così non si spaventò e la salutò cordialmente: “Buongiorno.”
“Buongiorno a te lupo.” rispose lei “Cosa ci fai qui nel bosco?”
“Niente, stavo solo giocando. E tu?” le chiese di rimando
“Sto andando alla casa della nonna, dall’altra parte del bosco. Vive lì tutta sola e ora si è ammalata, perciò sto andando a trovarla.”
“È gentile da parte tua. - disse contento il lupo - E che cosa le porti in quel paniere?”
“Ho marmellata, focacce, biscotti e pane appena sfornato, ma non sono per lei, è il mio pranzo. A lei sto portando questo.” disse la ragazzina togliendo dal paniere un lungo e affilato coltello.
“E perché mai?” si stupì il giovane lupo
“Perché con questo le taglierò la gola, poi le ruberò i soldi e dirò di averla trovata morta. Lo sanno tutti che vivere ai margini della foresta è pericoloso, nessuno si stupirà.”
Il lupo, a sentire quelle parole, rabbrividì. “E… e perché me lo dici?” domandò con un filo di voce.
“Perché prima di uccidere lei ucciderò te, per farmi una bella pelliccia di lupo.” rispose la ragazzina avventandosi contro di lui.
Il povero lupo riuscì a sfuggirle per un soffio, e si mise a correre a perdifiato nel folto del bosco, fin quando non si fermò ansimante, poggiando le spalle a una robusta quercia, nella speranza di averla seminata.
Mentre riprendeva fiato, pensò all’orribile sorte che attendeva la povera vecchietta che viveva oltre il bosco.
“Devo avvisarla.” decise, e così si rimise in marcia, più veloce che poteva, verso l’abitazione della nonna.
Giunse infine in vista della casa e subito bussò alla porta.
“Chi è?” chiese una voce flebile dall’interno
“Buona nonnina, sono un lupo. Sono venuto a trovarla perché so che è malata, e per dirle una cosa importante. La prego, mi faccia entrare.”
“Caro lupo, sono troppo debole. - rispose ancora la vocina - La porta è aperta, entra pure.”
Il lupo spinse la porta e si fece strada nella casa, fino alla stanza da letto della nonna. Lì la vide raggomitolata sotto le coperte. Solo la testa, coperta da una cuffietta, e le dita di una mano sporgevano fuori dalle coltri.
“Nonnina…” disse, ma lei lo interruppe.
“Vieni più vicino, lupo caro. Da lì non ti vedo e non ti sento, sono vecchia e non ho più i sensi di una volta.”
Così il lupo si avvicinò, e guardò la testolina poggiata sul cuscino, da cui due occhi lo fissavano tra le palpebre semichiuse.
“Che occhi piccoli hai nonnina.” commentò il lupo.
“È perché sono malata. Vieni più vicino, faccio fatica a vederti.”
Lui si avvicinò.
“E che mani piccole hai.” disse quando fu più vicino
“È perché sono vecchia e avvizzita, lupo caro, ma non ti preoccupare…”
Una fitta improvvisa al petto fece ululare il lupo di dolore. Quando abbassò lo sguardo, vide un manico nero che gli spuntava dallo sterno.
“… il coltello è grande abbastanza.” concluse la ragazzina gettando via le coperte e affondando ancor di più la lama, continuando a tagliare e tagliare finché il povero animale fu letteralmente aperto in due, e le sue viscere sgorgarono sopra il letto.
Toltasi il travestimento, la ragazzina si rimise i suoi vestiti, che aveva lasciato da parte perché non si sporcassero troppo. Poi si chinò e tirò fuori da sotto il letto il corpo senza vita di sua nonna, con la gola squarciata da parte a parte, infierendo su di esso con le zanne del lupo morto, per far sembrare che l’avesse morsa e masticata.
Volle il caso che stesse passando da quelle parti un cacciatore, che udì l’ululato del lupo e si preoccupò.
Proprio mentre la ragazzina si alzava, avendo terminato il suo lavoro, l’uomo entrò come una furia nella casa, guardandosi intorno e chiamando a gran voce.
Giunto in camera da letto vide la nonna e il lupo, entrambi morti, e la ragazzina sporca di sangue e in un lago di lacrime.
“Il lupo… - disse lei singhiozzando - … il lupo aveva mangiato la nonna e si era… si era messo i suoi vestiti. Mi ha ingoiata… tutta intera. Per fortuna… avevo questo… - gli mostrò il coltello insanguinato - … e sono… sono riuscita a uscire aprendogli la pancia.”
“Povera bambina. - disse il cacciatore, avvicinandosi per abbracciarla, forse un po’ più stretto di quanto fosse lecito - Non ti preoccupare, adesso è tutto finito. Diremo che sono stato io a uccidere il lupo, così nessuno ti chiederà niente e la gente ti lascerà in pace.” aggiunse, pensando alla bella figura che gliene sarebbe derivata.
La bambina singhiozzò e si asciugò le lacrime col dorso di una mano.
“Sì, sì… meglio così.” gli rispose.
E fu così che la storia venne tramandata.

lunedì 9 febbraio 2009

Ritorno a Casa

Quando lasciò l’aeroporto, l’idea di tornare finalmente a casa era divenuta qualcosa di più concreto del miraggio che era stata fino a poco prima di atterrare.
Era talmente concentrato su quell’unico pensiero da passare indenne attraverso la confusione che lo circondava, notandola a malapena, proprio lui che non aveva mai sopportato la calca e la ressa. Ma era rimasto lontano per così tanto tempo da non riuscire a concentrarsi sul presente più di quanto gli servisse per avanzare verso l’uscita. Nella sua mente già viveva la fine del suo viaggio, l’incontro con sua moglie, con le bambine, inclusa Sarah, la più piccola, di cui gli sembrava di essersi perso tutte le fasi più importanti della crescita.
A ben pensarci, la sua mente era altrove a tal punto che si poteva considerare un miracolo il fatto che non avesse ancora investito nessuno camminando verso le porte automatiche, e fu ancora più miracoloso il fatto che riuscisse a fermarsi quando queste, inaspettatamente, gli si chiusero a un centimetro scarso dalla faccia, riaprendosi poco dopo e permettendogli infine di uscire, incrociando qualcuno che arrivava dal lato opposto, probabilmente in procinto di partire o, forse, di tornare a casa anche lui.
Raggiunse la strada e cercò di fermare un taxi. Quando partiva per lavoro, di solito, lasciava l’auto nel parcheggio custodito dell’aeroporto, ma per un’assenza lunga come quest’ultima sarebbe stato impensabile. Un vero peccato, perché in caso contrario sarebbe già stato sulla strada, nel relativo conforto dell’abitacolo, piuttosto che fuori, in una giornata insolitamente fredda per la stagione, a cercare inutilmente di farsi notare da un tassista dopo l’altro.
Dopo l’ennesimo fallimento, decise di prendere la metropolitana. La fermata non era vicinissima a casa sua, ma era comunque molto più vicina di dove si trovava in quel momento. Oltretutto non si sentiva affatto stanco, e fare due passi non gli avrebbe certo fatto male.
Salì sul vagone con la fastidiosa sensazione di aver dimenticato qualcosa, che lo accompagnò per tutto il tragitto senza che riuscisse a focalizzare di cosa si trattava, ma la cancellò dalla mente non appena riemerse dal sottosuolo, respirando l’aria familiare delle strade attorno alla sua abitazione, riconoscendo vicoli e insegne come vecchi amici che non vedeva da tempo. Fu solo quando fu ormai a metà strada dal suo appartamento che si rese conto di non aver comprato il biglietto. Quasi non riusciva a capacitarsene, ma ormai era troppo tardi per rimediare, e anche in caso contrario non sarebbe tornato indietro, non adesso.

Mettere piede sul vialetto fu come ritrovare all’improvviso qualcosa che aveva perduto da troppo tempo. Rimase per un istante fermo ad osservare l’esterno della sua casa, quasi incredulo di essere finalmente tornato, riluttante a fare quei pochi passi che lo separavano dalla porta come se, arrivato lì, avrebbe potuto improvvisamente scoprire di aver solo sognato, e risvegliarsi in una delle tante camere d’albergo che avevano costituito il suo rifugio notturno per troppo tempo.
Vinse la sua ritrosia e proseguì per la breve distanza che ancora lo separava dalla sua destinazione finale. Solo allora si frugò in tasca, scoprendo di non avere con sé le chiavi. La cosa non lo preoccupò, aveva smesso di portarsele dietro ogni giorno visto che non ne aveva bisogno, e probabilmente le aveva lasciate nella valigia senza pensarci. Del resto non era un grosso problema, gli sarebbe bastato suonare il campanello.
Era già al terzo tentativo quando realizzò due cose: che nessuno sarebbe andato ad aprirgli, e che la porta, in realtà, non era chiusa, ma solo accostata. La preoccupazione per ciò che poteva essere accaduto lo spinse a entrare di corsa senza neppure fermarsi a riflettere. Se qualcuno era entrato in casa… un ladro, un rapinatore… Dio non volesse uno psicopatico di qualche genere… avrebbe potuto essere ancora lì, ma la cosa sul momento non gli sfiorò neppure la mente. E non avrebbe fatto differenza. In casa non c’era nessuno.
Esplorò una dopo l’altra tutte le stanze, fino alla sua camera da letto, al piano di sopra.
Il letto era sfatto, la stanza in disordine. Una camicia da notte era stata gettata in un angolo, e il piccolo televisore di fronte al letto era acceso. Un notiziario ripeteva incessantemente la notizia del giorno.
La luce dello schermo gli si rifletté sul volto, distorcendogli i lineamenti. Immagini che aveva già visto, senza però registrarle nella memoria, perso com’era in quel suo unico, soverchiante desiderio di tornare. Un desiderio che aveva realizzato fin troppo bene.
Scorse tra la folla inquadrata dai giornalisti il volto di sua moglie. Le bambine erano probabilmente dai nonni. Poi lo schermo mostrò nuovamente i rottami fumanti dell’aereo che si era schiantato sulla pista di atterraggio. Nessun superstite.
Avrebbe voluto tornare lì, cercarla, dirle che era tutto a posto, che lui era tornato a casa.
Ma lei non lo avrebbe sentito.

venerdì 6 febbraio 2009

Happy Ending

E vissero tutti felici e contenti
Sì, e quando mai?
Tutta propaganda, credete a me.
A parte che, per cominciare, ci sarebbe da capire bene chi siano questi "tutti". Di sicuro non il lupo, lo sapete bene che fine ha fatto quel poveretto, e neanche la strega, quella della casa di marzapane. Voi direte "ma quella mangiava i bambini, se lo meritava", ma siamo seri: quando mai ne ha mangiato uno? L'unica volta che ci ha provato è finita nel forno!
E vogliamo parlare del gigante? Non l'aveva certo chiesto lui a quello scioperato di Jack di andare a infilarsi nel suo castello, e voi cosa avreste fatto al posto suo se vi avessero rubato gli unici stivali che avevate?
Cattivi, ci chiamano. Cattivi noi! E con che coraggio ce lo vengono a dire?
Non siamo noi quelli che vanno in giro a squarciare pance, e mozzare teste, e far cadere la gente giù dalle nuvole, eh no!
Sì, certo, qualcuno si lascia andare a gesti un po' estremi, spinto dalla fame o da qualche cattivo consigliere, come quello specchio magico bravo solo a seminar zizzania. Ma poca roba, sia chiaro. Perché non dovete mica credere a tutte quelle fandonie che la gente mette in giro.
Prendete Rumpels... Ruspel... Rumples... sì, vabbe', avete capito di chi parlo... Credete di sapere tutto su di lui, vero? Eh no cari miei, non è andata per niente come si dice.
La paglia in oro sì, quella storia è vera, ma altro che bambino in cambio, era un pagamento per ben altre cose quello... e il bambino, be', cose che capitano. Poi quella lì va a spacciarlo per figlio del principe e si rifiuta anche di farglielo vedere, chiaro che lui dà un po' fuori di matto... mette in mezzo gli avvocati, fa partire la causa per l'affidamento, e non va a perdere perché nessuno riusciva a scrivere giusto il suo nome sulle carte?
La verità è che la storia la scrivono i vincitori, già. E si fermano sempre al momento giusto.
Nessuno vi viene mai a raccontare del divorzio di Cenerentola, quando il marito ha finalmente scoperto cos'era davvero la "bacchetta" della fata di cui parlava di continuo (e cos'era la fata, soprattutto), nessuno fa una cronaca delle liti furibonde del principe con la sua seconda moglie, Biancaneve, dopo che lei l'aveva visto baciare la bella addormentata. Hanno dovuto trattenerla in sette... sì, sì, quei sette lì... per impedirle di ficcargli in gola il resto della mela avvelenata.
E vogliamo parlare di Bella, che ha piantato la bestia la prima notte di nozze quando si è resa conto che grosso e peloso era molto meglio?
No, no, signori miei, non ci si può fermare alle apparenze e ai sentito dire.
Felici e contenti? È una fiaba bella e buona! La verità è che prima danno la colpa a noi di tutte le loro disgrazie, e quando poi non ci siamo più si scannano tra di loro, ma non lo fanno sapere a nessuno, perché i panni sporchi si lavano in famiglia.
Perciò la prossima volta che sentite quella frase ridicola, pensateci bene prima di immaginarvi il lieto fine.
Come dite?
Chi sono io?
È così importante?
Be', ve lo dirò un'altra volta, adesso sento un fastidioso ticchettio che si avvicina.

martedì 3 febbraio 2009

Sfumature di nero

Rimosso causa pubblicazione ^_^ http://www.lafeltrinelli.it/products/9788865782545/Sfumature_di_nero/Carmelo_Massimo_Tidona.html

sabato 24 gennaio 2009

Ombre

Viveva al secondo piano di una palazzina senza ascensore.
Doveva percorrere le quattro rampe di scale più volte al giorno, quasi sempre da sola.
Neppure lei sapeva quando fosse iniziato esattamente, quando avesse notato per la prima volta le ombre. Forse fin da quando si era trasferita.
Ogni volta che passava per le scale, c’era sempre un’ombra proiettata sulla parete di fronte a lei, che si muoveva come se qualcuno fosse stato lì, proprio oltre il margine del suo campo visivo, a scendere o salire poco prima di lei. Anche se in realtà non c’era mai nessuno.
All’inizio era stata proprio l’idea della presenza di qualcuno a spaventarla. Non che lei fosse l’unica inquilina, ovviamente, ma i suoi vicini non erano esattamente silenziosi e furtivi quando passavano. Qualcuno che si muoveva in quel modo, senza far rumore e senza farsi notare, avrebbe potuto essere un intruso.
In seguito, comunque, una volta constatato che nessuno si era introdotto nel palazzo, era stata appunto l’assenza di qualcuno a instillarle quel timore irrazionale. Chi, o cosa, precedeva il suo passaggio?
Era arrivata a convincersi che si trattasse semplicemente di un gioco di luce, per quanto improbabile fosse il suo ripetersi e manifestarsi a prescindere dall’ora del giorno, o dal fatto che la luce sui pianerottoli fosse accesa o meno.
Razionalmente, si ripeteva, non poteva trattarsi d’altro. Questo comunque non le impediva di sobbalzare ogni volta che scorgeva quell’ombra.
Aveva perfino pensato di cambiare casa, come se fosse stata una cosa semplice. Oltretutto, si sarebbe sentita estremamente stupida ad affrontare un trasloco per un motivo talmente futile e irrazionale.
Finché, una sera d’inverno, appena entrata nel portone, si sentì afferrare alle spalle in una gelida morsa.
Qualcosa di freddo, morbido e liscio le chiuse la bocca, e per un attimo credette che l’oggetto delle sue paure avesse infine preso corpo e sostanza per aggredirla.
Poi una voce rozza le sussurrò all’orecchio “Fai la brava e non ti faccio niente”, terminando la frase con un osceno sghignazzo. L’alito che le giunse alle narici era caldo e maleodorante.
Per un assurdo istante, fu quasi sollevata all’idea che il suo aggressore fosse qualcosa di concreto e tutt’altro che soprannaturale. Il sollievo lasciò però rapidamente spazio a una paura differente ma non meno forte.
Non tentò neppure di sfuggire a quell’uomo, sapendo bene che non ci sarebbe mai riuscita. Non si divincolò neppure quando sentì il freddo metallo di una lama sfiorarle la gola.
“Ora andiamo a casa tua.” le disse l’uomo trascinandola verso le scale e iniziando a salire, tirandosela dietro.
Il coltello le graffiò la pelle, stillandone una goccia di sangue.
Poi, all’improvviso, sentì la presa che la tratteneva allentarsi. Udì, più che vedere, il coltello che cadeva, rimbalzando sugli scalini, e si ritrovò seduta senza capire esattamente come, o cosa, fosse accaduto.
L’uomo la superò con un balzo, quasi volando oltre la sua testa. Atterrò malamente ai piedi delle scale. Si rialzò. Ricadde. Si rialzò nuovamente.
Lei vide i suoi occhi fissarla, o meglio guardare nella sua direzione senza però vederla, come se il loro obiettivo fosse stato qualcosa oltre lei. L’espressione sul suo volto era di orrore puro.
Lo vide voltarsi e fuggire, biascicando qualcosa di incomprensibile e rischiando nuovamente di finire in terra, tanta la fretta di allontanarsi da lì.
Il suo terrore non scemò per un solo istante, limitandosi a una rapida metamorfosi.
Si voltò di scatto, volendo affrontare faccia a faccia qualunque cosa la attendesse dietro le sue spalle. Tutto ciò che vide fu un’ombra ormai familiare, come se qualcuno stesse salendo poco più avanti.

Viveva al secondo piano di una palazzina senza ascensore.
Doveva percorrere le quattro rampe di scale più volte al giorno. E non era mai sola.

martedì 20 gennaio 2009

Sognerai di me

Il buio le si stringeva attorno, opprimendola come le braccia di un amante molesto. Anche con gli occhi aperti non vedeva nulla, ma si ostinava a non chiuderli.
Se li avesse chiusi, si sarebbe addormentata.
Se si fosse addormentata, avrebbe sognato.
Se avesse sognato, avrebbe sognato lui. E mai come in quella notte la sua anima era stata dilaniata dal desiderio e dal terrore che ciò accadesse.

“Sognerai di me”, le aveva detto, in quel loro unico, fugace incontro, e così era stato. Notte dopo notte dopo notte. Per quasi un anno intero.

Ancora ricordava la prima volta, la prima sorpresa visita a quel luogo idilliaco e incantato che sarebbe presto divenuto la sua casa di notte tanto quanto la fredda città lo era di giorno.
Lui l’aveva accolta come una gradita ospite, e per quella e tante altre notti ancora avevano parlato. L’aveva corteggiata come un gentiluomo d’altri tempi, e quando l’aveva infine amata era stato con una dolcezza e un trasporto che mai alcun amante in carne e ossa le avevano fatto provare.
Poi le aveva insegnato a cacciare.
Ogni notte di luna piena, insieme inseguivano la loro preda fino a sfinirla e catturarla, per poi ucciderla.
Le prime volte lei gli aveva corso accanto, senza realmente partecipare, inebriandosi della sensazione di libertà e di forza che quel semplice atto le dava. Una sensazione che ancora provava ogni volta, anche dopo aver compreso, quasi vergognandosene come di un piacere empio e clandestino del quale non fosse stata in grado di privarsi.
Si era in seguito unita a lui nell’atterrare la preda, aiutandolo a immobilizzarla, ma sempre restando da parte mentre lui la dilaniava, cibandosene mentre lei lo osservava, atterrita e affascinata.

Diverso tempo era passato nel mondo della veglia, che ormai le appariva tanto più irreale dei panorami onirici in cui trascorreva la sua seconda vita, prima che iniziasse a comprendere, ad annodare i fili di quell’oscura vicenda. Prima che capisse che le vittime di quella caccia sfrenata non si limitavano a morire nel sogno.
Terrorizzata, aveva ceduto alla paura di essere divenuta folle. Possibile, forse, che camminando nel sonno avesse compiuto quei delitti che il suo tenebroso amante sconosciuto - da sveglia sembrava incredibile che ancora non ne conoscesse il nome - perpetrava dinanzi ai suoi occhi? Eppure quelle ragazze erano morte nei loro letti, troppo lontane dalla sua abitazione perché avesse potuto realmente recarvisi in preda al sonnambulismo.
Aveva cercato ogni genere di conferma alla sua situazione, accertandosi infine di non aver mai lasciato il suo letto, comprendendo che la verità era differente, sebbene non meno terribile.
Ma nel sogno era tutto così naturale, così estasiante che mai i suoi pensieri di dormiente avevano fatto eco alla volontà di ribellione che provava da sveglia.
Aveva tentato di rifuggire i sogni, di restare sveglia, ma nulla l’aveva aiutata a farlo, neppure i farmaci. Ma quella notte, quella notte doveva riuscirci, perché altrimenti sapeva che non sarebbe più potuta tornare indietro.
Era il dodicesimo plenilunio dal suo primo incontro con lui, ed era giunto il momento che fosse lei a completare la caccia, lei a uccidere, lei a sbranare.

Poco dopo aveva abbandonato i suoi pensieri nel freddo mondo reale, e stava correndo spensierata sull’erba con lui al suo fianco, le labbra incurvate in un sorriso sinistro.
Insieme raggiunsero la preda, insieme la bloccarono, gettandola a terra e inchiodandovela con la propria forza. Poi lui si fece da parte, invitandola a finire ciò che aveva iniziato.
Lei esitò.
Lui le si fece vicino, incoraggiandola senza forzarla, sapendo che avrebbe fatto quel che doveva.
Lei si sporse in avanti. Guardò gli occhi della ragazza, così pieni di terrore.
Di scatto si voltò verso di lui, le zanne snudate e un lampo sanguigno negli occhi.

Due giorni dopo era ferma davanti a un chiosco di giornali, a leggere dell’ennesimo sanguinoso omicidio poco dopo essersi svegliata dal suo primo viaggio in quel mondo senza di lui. Un uomo di buona famiglia, benvoluto da tutti, una tragedia inspiegabile, come le precedenti.
L’edicolante richiamò la sua attenzione schiarendosi la gola. Lei gli sorrise e prese una moneta dalla borsa, porgendogliela.
La mano si soffermò solo un istante sopra quella di lui, mentre i loro occhi si incontravano.
“Sognerai di me.” gli sussurrò.

venerdì 16 gennaio 2009

Condannato

Dopo la forzata e forzosa immersione a testa in giù era zuppo, grondava letteralmente, e questo in qualche modo sembrava aumentare l’interesse del suo aguzzino. I suoi denti si avvicinavano senza che potesse far nulla per tenerli lontani, stretto com’era nella sua solida presa.
Tutto sommato, ad alcuni degli altri erano toccati destini peggiori. Qualcuno era stato pestato fino a diventare irriconoscibile, altri lasciati a mollo così a lungo da iniziare a sfaldarsi. Per lui sarebbe finita molto più velocemente. Un morso, forse due, poi non ne sarebbe rimasto più nulla.
Non c’era molto da dire, era una condanna a cui era stato destinato fin dal primo momento.
Del resto, come altro può finire per un biscotto?

martedì 13 gennaio 2009

L'incubo di Stan

La notte era appena iniziata quando Stan si risvegliò di soprassalto rizzandosi a sedere sul suo giaciglio, ormai zuppo di quel sudore che continuava a scendergli lungo la fronte. Nella sua mente le immagini dell'incubo appena avuto erano ancora tanto vive che avrebbero potuto gelargli il sangue.
Nel sogno, qualcuno era entrato in casa mentre lui dormiva e... no... meglio non ripensarci.
Strano che i sogni possano sembrare tanto reali, pensò mentre tentava di asciugarsi il volto impallidito, eppure...
Il rumore di un'imposta che sbatteva al piano di sopra lo fece trasalire. Era certo di aver chiuso tutte le finestre. E se... ma che stupidaggine! I sogni sono solo sogni, niente di più, e quello non era poi tanto diverso dai soliti... magari solo un po' più spaventoso, tutto qui! E la finestra... be’, doveva essere stata una dimenticanza, perché preoccuparsene tanto?
Rinunciò ad asciugarsi, gli sembrava di essere stato immerso nel fango, e si sedette a gambe incrociate tentando di scacciar via dalla sua mente i residui dell'incubo. In fondo, pensò nel tentativo di tranquillizzarsi, se fosse davvero successo quel che aveva sognato se ne sarebbe già accorto. ... o no?
Si rimproverò nuovamente per l'aver dato tanto credito a qualcosa che non poteva assolutamente essere, ma ormai era più forte di lui, e non poté fare a meno di portarsi una mano sul collo. I suoi polpastrelli sfiorarono due piccoli rigonfiamenti, simili a punture di insetto, in corrispondenza della giugulare. Una goccia di sangue gli macchiò le dita. Non poteva essere ciò che pensava... non doveva esserlo.
Si alzò di scatto e corse in bagno per mettersi davanti allo specchio, ma la fredda lastra non gli rimandò alcuna immagine del suo volto.
Ancora tremante, si sfiorò i denti con la lingua, passando più volte sui canini. Erano lunghi ed appuntiti come le zanne di una belva.
Si diresse alla finestra ed osservò per un attimo l'ultimo quarto di luna. Il suo corpo sembrò mutarsi in nebbia, per poi rapprendersi nella forma scura di un enorme pipistrello.
Diede un'altra occhiata alla sua bara ed uscì in volo.
Certo, però, che era stato davvero stupido a preoccuparsi tanto per un banalissimo incubo.

sabato 10 gennaio 2009

Impossibile

Non riusciva più a dormire, e quelle rare volte in cui il sonno si impadroniva di prepotenza del suo corpo e della sua mente, sognava lui, sempre lui.
Lui, che non avrebbe mai potuto avere e che pure non poteva smettere di desiderare. Lui, così vicino ma sempre così distante.
Trovava migliaia di scuse banali solo per passargli accanto, per rivolgergli uno sguardo. Quando non poteva neppure vederlo passava il tempo a pensare a lui, la sua capacità di concentrarsi era quasi del tutto estinta, lui si intrufolava nei suoi pensieri in ogni momento. Non riusciva più a pensare ad altro, non riusciva più a vivere.
Pensava a tutto quello che avrebbe potuto dirgli, e che non gli avrebbe mai detto. A tutto quello che avrebbe potuto fare e non avrebbe mai fatto.
Quando lui era lontano, stava male. La sua sola presenza, uno sguardo, un gesto, anche banale, meccanico, bastavano a modificare radicalmente il suo umore, almeno per quei pochi secondi, poi lui si allontanava e tutto tornava come prima, peggio di prima.
Lui era divenuto il suo centro dell’universo, e non sapeva neppure di esserlo. Non era in grado di interpretare i suoi sguardi, le sue parole. Non poteva cogliere i suoi pensieri. E se mai avesse potuto, probabilmente le cose sarebbero peggiorate, perché sapeva che non avrebbe dovuto provare ciò che provava, che quello che sperava si realizzasse era in realtà impossibile. Se lui avesse potuto sapere…
Ma la situazione era ormai insostenibile, una continua battaglia tra la logica, che sottolineava quanto tutto ciò fosse assurdo, privo di ogni fondamento, e qualche altra cosa indefinibile che si ostinava a perseverare, che impediva anche solo di provare a dimenticarlo. La sua psiche era in condizioni pietose, nei rari momenti in cui lui non impegnava interamente i suoi pensieri non poteva fare altro che maledirsi per aver lasciato che tutto questo iniziasse, ma non c’era nulla che potesse fare. Non più, se mai c’era stata.
Sebbene avesse sempre odiato i gesti estremi, era sempre più incline a pensarci. Dapprima liquidava semplicemente il pensiero come una sciocchezza dettata da un attimo di sconforto, ma man mano che gli attimi di sconforto avevano cessato di essere attimi per divenire la norma, man mano che il pensiero si affacciava con frequenza sempre maggiore alla sua mente, allontanare l’idea era diventato sempre più difficile. Se non poteva averlo, che cosa restava? Nulla, assolutamente nulla, tanto valeva scegliere l’oblio.
Quella mattina svuotò tutti i cassetti, sapeva che in casa, da qualche parte, c’era una pistola, e non faticò a trovarla dopo qualche ricerca. Rimise tutto a posto con grande cura, non voleva che qualcuno si accorgesse di quello che stava per fare, non prima che fosse troppo tardi per impedirlo.
E andò da lui per un’ultima volta.
Attese finché lui non si avvicinò. Si vide rivolgere il suo consueto sorriso, lui non poteva sapere che era l’ultima volta in cui glielo avrebbe rivolto. Non attese neppure che si allontanasse, esplose due colpi in rapida sequenza e l’animatrone nella vetrina andò in pezzi, molle ed ingranaggi gli si sparsero intorno mentre un filo di fumo iniziava a sollevarsi ondeggiando dai circuiti danneggiati.
Ora non avrebbe più potuto essere di nessuno.