martedì 19 ottobre 2010

Dispersi

La spiaggia che si estendeva infinita dinnanzi a lui avrebbe anche potuto essere un deserto. Il mare, più che un elemento concreto, era un suggerimento di rumore di risacca e odore di salsedine trasportato dal vento.
Lontano, oltre la foresta alle sue spalle, il fumo saliva nero e denso nel cielo altrimenti terso. Era l'unica testimonianza visibile dell'esistenza dell'aereo, fatta eccezione per lui, gli altri e le valigie.
Altri quattro uomini erano lì vicino, nelle sue stesse condizioni. Il sole impietoso aveva già asciugato i loro abiti incrostati di sale e sabbia, dando loro, nel complesso, l'aspetto di antichi relitti rigettati da onde che non desideravano avere nulla a che fare con loro. Forse, come lui, sapevano di essere sopravvissuti al tuffo, alla frenetica nuotata verso la riva e alla camminata sulla sabbia rovente in cerca di altri sopravvissuti solo perché erano troppo doloranti per poter essere morti. Il caldo, quello no, non era un grande indizio.
«Hai trovato qualcosa di utile?», gli domandò uno degli altri, un uomo sulla sessantina ma atletico e asciutto.
Lui tornò ad abbassare lo sguardo sulla valigia che aveva aperto. Non aveva molta importanza di chi fosse, data la situazione.
C'erano dentro dei vestiti, un libro, un orologio e un uovo di pasqua, ancora avvolto nella sua carta laminata bianca e arancio, che il sole aveva ridotto a una massa deforme. Se lo gettò alle spalle. «No. Voi?»
Il ragazzo – un biondino scheletrico dallo sguardo spento che lavorava, a suo dire, in un'officina – sollevò sopra la sua testa qualcosa che a prima vista poteva essere una griglia, ma guardando meglio si rivelò uno stenditoio di quelli che si appendono alle ringhiere dei balconi. Ma chi se ne andava in viaggio con un oggetto del genere?
«Io ho questi», commentò un altro. Aveva un fisico massiccio da palestrato, capelli quasi inesistenti per scelta e mani grandi come pale. Aveva detto di essere un parrucchiere. E aveva in mano un computer, o per meglio dire uno di quei netbook che si usavano di recente, grossi come agende, attaccato con un cavetto a un cellulare quasi altrettanto grande.
«Funzionano?», gli domandò.
«Il pc no. Il cellulare si accende ma non c'è campo.»
Lui levò gli occhi al cielo. Chissà perché la cosa non lo sorprendeva.
«C'era anche questo», aggiunse il coiffeur, sollevando una palla nera irta di punte che gli riempiva la mano.
«E cos'è?», chiese lui, immaginando che l'altro avrebbe estratto un bastone da avvitare nella cosa a mo' di manico per ottenere una perfetta mazza ferrata. Invece estrasse un cordone di alimentazione e ne infilò la spina in una qualche apertura.
«Un adattatore universale», spiegò.
«Bene. Così non dovremo preoccuparci di trovare le prese del tipo giusto.»

Era incredibile che fosse passata solo una settimana. Era incredibile che fossero sopravvissuti nonostante nessuno li avesse soccorsi, a pensarci bene. Eppure erano tutti lì, su una zattera, pronti a prendere il largo nella speranza di raggiungere la terra ferma. Se la sfortuna aveva voluto metterli alla prova, la sua più benevola controparte doveva aver deciso di dare loro una speranza mettendoli assieme.
Il ragazzo smilzo si era rivelato un asso nel costruire attrezzi di fortuna con tutto quanto gli capitava sottomano. Con quelli avevano potuto costruirsi un riparo, ma cosa ancora migliore avevano potuto abbattere alcune tra le tante palme locali che l'uomo anziano, un falegname nientemeno, aveva abilmente tramutato in un'imbarcazione grande abbastanza. Il tutto mentre l'ultimo della compagnia, armato di ago e filo che a quanto pareva si portava sempre dietro in un kit tascabile, aveva cucito assieme gli abiti più disparati per dar loro una vela in piena regola. E lui, da bravo chef, aveva pensato al cibo, industriandosi a cucinare pesce, granchi, perfino piante se sembravano abbastanza commestibili, con l'aiuto del parrucchiere, che come pescatore e raccoglitore di frutta non aveva rivali, almeno non tra loro. L'unica cosa che nessuno aveva voluto toccare era l'uovo di pasqua, che giaceva ancora lì dove era stato gettato, e ormai doveva essere del tutto sciolto dentro la carta. Se lo lasciarono indietro mentre la zattera prendeva il largo.

La vela era un puntino all'orizzonte quando l'uomo uscì, più strisciando che camminando, dalla foresta.
Non sapeva quanto tempo fosse passato dall'incidente. Ricordava a malapena di essere stato risucchiato dall'aereo prima che si schiantasse e di essersi trascinato a stento fuori da una laguna prima di annegarvi. Poi non aveva fatto altro che prendere e riperdere i sensi, cercando di esplorare quanto poteva e mangiando quello che gli capitava, vermi e insetti compresi, pur di sopravvivere.
Quando vide l'origine del luccichio che l'aveva attratto in quella direzione, non seppe se ridere o piangere.
Dopo un po', si decise a raggiungere l'involto di carta metallizzata bianca e arancio, spezzare il nastro che lo teneva stretto e aprirlo. All'interno c'era una poltiglia marroncina con venature biancastre, di certo migliore di tutto ciò che aveva ingurgitato in quegli ultimi giorni. Vi affondò due dita e, con un'espressione di immenso piacere, se la portò alla bocca.
Fu solo dopo averla finita che, per curiosità, aprì l'uovo di plastica da cui aveva leccato via ogni traccia di cioccolato. Guardò dentro, estrasse incredulo l'oggetto che conteneva e scoppiò in una risata folle.
Un bigliettino abbandonato sul fondo del contenitore recitava: "Congratulazioni, hai vinto la nostra promozione speciale, un telefono satellitare a energia solare con un mese di chiamate gratuite già attivo".

lunedì 13 settembre 2010

La Cura

Sarah continuava a rimirarsi nello specchio, controllando il lavoro della truccatrice e della parrucchiera. Mancavano solo pochi secondi alla diretta e voleva essere certa di apparire al meglio quando il suo volto sarebbe stato trasmesso sui televisori dell'intera popolazione. Se qualcuno doveva fare una brutta figura quel giorno, non sarebbe stata certo lei.
Diede un'ultima occhiata al dossier nella sua cartellina. Aveva tutte le domande, tutte le risposte, tutte le controdomande e le informazioni che le servivano.
Purtroppo, di quanto avrebbe detto il suo ospite non sapeva nulla; non c'era stato modo di ottenere niente da lui prima della trasmissione, se non le poche cose che ormai erano di dominio pubblico. Non che avesse importanza, visto quanto era evidente di cosa si trattasse.

«... e adesso ci colleghiamo con il nostro ospite, il professor BiIlder», disse infine, dopo la consueta introduzione della trasmissione.
Sul monitor alle sue spalle comparve il mezzobusto di un uomo stempiato e dai capelli grigi, con sullo sfondo una serie di macchinari di un qualche tipo.
Lei non si voltò a guardarlo; lo schermo davanti a lei, fuori dall'inquadratura, le permetteva di vedere quello che veniva trasmesso agli spettatori, inclusa la sua stessa immagine.
«Buongiorno professore,» esordì «è un peccato non averla qui con noi in studio, considerato che siamo anche piuttosto vicini.»
«Buongiorno signorina Jacobsen. La capisco, anche a me sarebbe piaciuto essere lì, ma come le ho spiegato non mi è possibile abbandonare il mio laboratorio proprio in questo momento, a lavoro ormai quasi ultimato.»
«Infatti, professore, parliamo del suo lavoro...»
«Scusi se la interrompo ma vorrei approfittare della diretta perché tutti possano assistere al momento storico.» Si spostò per mostrare un pannello alle sue spalle, in gran parte occupato da uno schermo e una tastiera non dissimili da quelli di un comune PC.
Sarah si lamentò in silenzio per il fatto di non poter avere un'immagine più ravvicinata. Il sedicente professore non aveva accettato di far entrare nessuno nel suo laboratorio durante la trasmissione, e li aveva costretti ad accontentarsi di una telecamera fissa sistemata in precedenza.
L'uomo premette una sequenza di tasti. Lo schermo sul pannello mostrò una barra di completamento che si esaurì in un tempo sorprendentemente breve, poi una semplice scritta priva di fronzoli: "Operazione completata".
«In questo momento, la diffusione è iniziata.»
L'immagine sul monitor cambiò, mostrando l'esterno dell'edificio in cui si trovava il laboratorio. Almeno lì gli operatori c'erano, e si stavano prodigando per mostrare il più possibile, per quanto in effetti...
«Noi da fuori non vediamo nulla, professore», commentò Sarah, che si era aspettata almeno un po' di scena.
«Perché non c'è nulla da vedere in effetti. La sostanza è del tutto invisibile a occhio nudo, ma non bisognerà attendere a lungo, occorreranno meno di ventiquattr'ore per la diffusione a livello globale.»
«Così poco?» domandò lei tentando di restare impassibile.
«So che può sembrare difficile, ma i miei calcoli sono molto accurati, glielo assicuro. Purtroppo non ci sarebbe abbastanza tempo per spiegarle i fattori che permetteranno questa rapidità.»
«Allora, mentre aspettiamo, parliamo di questa sostanza. Negli ultimi tempi se ne è parlato tantissimo come di una sorta di panacea, che dovrebbe risolvere tutti i mali del mondo, dalla fame, alla guerra, alla povertà. Ma a noi risulta un po' difficile pensare che basti spruzzare qualcosa in aria per mettere fine a tutto questo. Può spiegarci come dovrebbe funzionare, di preciso?»
«Certo, è per questo che ho accettato di essere in trasmissione oggi.»
Sarah si voltò appena sullo sgabello, accavallando con grazia le gambe e preparandosi a smontare le assurdità che quell'uomo avrebbe inevitabilmente iniziato a proferire.
«Vede, in passato mi sono molto interessato alle teorie che vedono il nostro pianeta come un unico, immenso organismo vivente, in cui tutte le creature ricoprono lo stesso ruolo che nel corpo umano appartiene a cellule come i globuli e i linfociti.»
Sarah annuì con aria distratta. Non era la prima volta che sentiva parlare di qualcosa di simile, ma era presto per interrompere.
«Di conseguenza, ogni pianta, ogni animale, ha un ruolo specifico nel funzionamento dell'organismo Gaea, che serve a permetterne la sopravvivenza e a mantenerlo in salute. Tuttavia, come accade per noi, non sempre questo è possibile senza un aiuto esterno.»
«Lei, dunque, mi sta dicendo che vede la guerra e la povertà come una malattia che è possibile curare.»
«No, naturalmente no, sarebbe una visione troppo semplicistica. Pensi ai virus.»
«La guerra sarebbe un virus?» chiese lei, pregustando il momento in cui il suo ospite avrebbe iniziato a farneticare del tutto.
«Non intendevo questo. Dicevo, pensi a come agiscono i virus. Sono elementi che a un certo punto si introducono nell'organismo, e anziché funzionare in accordo con esso agiscono attivamente per modificarlo e sfruttarlo per favorire il proprio sviluppo, danneggiandolo nel processo. Ne modificano le cellule secondo le proprie necessità.»
«Temo di...», si interruppe vedendo qualcuno che le faceva cenni incomprensibili dalla regia. Non avendo idea di cosa volesse, decise di andare avanti «Non sono sicura di seguirla.»
«Quello che sto dicendo, è che la guerra e le altre cose che ha menzionato non sono una malattia ma i sintomi di un'infezione di tipo virale.» Sarah lo stava ascoltando a malapena. Lo schermo davanti a lei ora trasmetteva una visuale del soffitto dello studio. Il cameraman sembrava essere scivolato dal suo sgabello ed essersi aggrappato alla telecamera, senza peraltro riuscire a sostenersi. L'assistente di studio era sul pavimento. Nessuno li stava soccorrendo. «E quella che io ho diffuso è la cura.»

giovedì 8 luglio 2010

Eu

Ho rimosso questo racconto perché utilizzato nella sua versione definitiva per il Preimo premio Letterario di Narrativa Umoristica "Primo Leone", dove si è classificato quarto ottenendo la pubblicazione in antologia. Per inciso, anche il primo classificato era un racconto mio. ^_^

mercoledì 10 marzo 2010

L'ora dei fantasmi

L'orologio del campanile aveva appena finito di battere il dodicesimo rintocco quando Bob si rizzò a sedere di scatto. Sua moglie, che giaceva accanto a lui, si svegliò di soprassalto a quel gesto inconsulto, che aveva causato peraltro un fastidioso cigolio.
«Che ti prende?» gli domandò con la bocca impastata.
«È mezzanotte.»
Lei nemmeno si voltò a guardarlo. «E allora? Succede una volta ogni ventiquattr'ore.»
«Sì ma è halloween.»
«Una volta ogni dodici mesi», reiterò lei.
«È il giorno in cui i morti camminano sulla terra. E questa è l'ora dei fantasmi.»
«E da quando credi a queste cose?» si stupì lei. «In settant'anni passati assieme è la prima volta che ti preoccupi di morti e fantasmi.»
«Ma è il primo halloween che passiamo qui. Questo posto mette i brividi.»
«Ah grazie tante. È quasi Novembre, fa freddo e siamo all'aperto. E poi alla tua età…»
«Lo sai cosa intendo, non quel tipo di brividi. E poi cosa c'entra l'età coi brividi?»
«Coi brividi niente. Dicevo che alla tua età è normale diventare un po' rimbambiti. Rimettiti giù, va'.»
«No, no, devo controllare.»
«Com'è che quando ti dicevo io di alzarti e andare a controllare qualcosa non lo facevi mai?»
«Tu mi svegliavi di continuo per le ragioni più assurde!»
«E invece questa tua fissa di stanotte è una cosa normale…»
«Ma dai, solo per sicurezza. Chi ti dice che non sia vero?»
«Il buon senso?»
«Faccio un controllo veloce. E poi sono già fuori per metà!»
«No, guarda, tu sei proprio fuori del tutto! Comunque fai come ti pare.»
«Vuoi venire con me?»
«Sì, come no… Vai, vai, che ti raggiungo.»
«Ho capito, ci vado da solo.»
«Ecco, bravo.»
Senza prestare ulteriore attenzione a sua moglie, Bob si tirò fuori a fatica dal suo giaciglio. Lei continuò a fare finta di nulla, convinta che gli sarebbe passata e sarebbe tornato molto presto.
Così fu.
Il campanile non aveva neanche battuto il quarto d'ora che già lo sentì arrivare.
«Allora? Hai controllato.»
«Sì, sì.»
«Fatto una bella passeggiata?»
«Be'… bella… non c'era molto da vedere.»
«Ma no?!» rispose lei con evidente ironia «Allora adesso che hai verificato di poter camminare, torna giù e rimettiti a dormire. E chiudi bene il coperchio della bara, che poi prendi freddo.»

venerdì 5 febbraio 2010

Al momento giusto

Dopo aver riempito d'acqua e messo sul fuoco la pentola più grande che aveva a disposizione, si voltò per dare un'ulteriore occhiata al grosso libro.
L'acqua ci avrebbe messo un bel po' per bollire, perciò aveva il tempo di preparare la maionese.
Si sincerò con uno sguardo distratto che la sua portata principale fosse ancora dove l'aveva lasciata: i tre astici, con le chele serrate da fascette nere, erano al loro posto, nella vaschetta poggiata sulla sedia, e si agitavano come se fossero stati consci del destino che li attendeva.
Assicuratasi che non potessero andarsene da nessuna parte, tornò a ignorarli e si dedicò a separare il rosso delle uova dal bianco, con tutta la cura necessaria.
Messi i tuorli in una terrina, aggiunse un cucchiaio d'aceto, sale e pepe, e iniziò a frullarli (sul libro c'era anche un'immagine che illustrava la scena), aggiungendo l'olio un po' alla volta, prima goccia a goccia e poi in un filo sottilissimo, per evitare che la maionese impazzisse.
Dopo aver esaurito l'olio aggiunse il succo di limone, osservando soddisfatta il risultato. Proprio in quel momento, uno sbuffo di vapore le fece capire che l'acqua stava bollendo, proprio al momento giusto.
Tolse il coperchio e si piegò per prendere uno degli astici dalla vaschetta. Lo afferrò per il carapace e lo sollevò al di sopra del pentolone (l'illustrazione sulla pagina accanto mostrava chiaramente come) per buttarvelo dentro…

… un'enorme chela scura afferrò il libro all'improvviso portandolo via, quasi fosse sbucata dal nulla.
«Allora?!» grugnì mamma astice guardando i suoi piccoli. «Quante volte ve lo devo dire di non leggere le storie dell'orrore prima di andare a dormire?»