giovedì 23 aprile 2009

La Sveglia

Gideon era seduto sul suo letto, perso in contemplazione della splendida figura femminile che aveva di fronte, le cui sinuosità erano drappeggiate dal lenzuolo che tratteneva davanti a sé con le mani giunte, in un provocante atteggiamento di falso pudore.
Lei avanzava con movenze feline, mettendo lentamente un piede davanti all’altro con estrema e sensuale grazia, finché, giunta a un solo passo da lui, lasciò cadere il lenzuolo, mostrandogli il suo corpo nudo, e dischiuse le labbra per dirgli…
"Tii Tii Tii Tii Tii"
Lui la cinse a sé. "Sì, dolcezza, tutto quello che vuoi." le disse in tono lascivo.
"Tii Tii Tii Tii Tii" ripeté lei, squillante.
"Sììì, sììì, amore, giochiamo alla sveglia e all’addormentato… dov’è il tuo pulsante, eh? Dov’è il tuo pulsante?"
"Ah ma allora sei proprio scemo! È la sveglia sul serio!" protestò lei, e tirando di nuovo su il lenzuolo se ne uscì offesa dal sogno.
"Tii Tii Tii Tii Tii"
Brontolando, mentre si domandava in un angolo della mente il perché della sveglia, Gideon sferrò una manata nella direzione del comodino, mancandolo clamorosamente.
"Tii Tii Tii Tii Tii"
Tentò di nuovo, e stavolta impattò con qualcosa. La brocca dell’acqua si rovesciò, inondando il libro che aveva accanto e l’orologio da polso poggiato lì vicino.
"Tii Tii Tii Tii Tii"
Al terzo tentativo, prese in pieno lo spigolo del comodino. Si rizzò a sedere sul letto, scuotendo la mano in alto e in basso come se potesse scrollarsi di dosso il dolore.
"Tii Tii Tii Tii Tii"
Infine aprì gli occhi. Guardò il comodino. Non lo vide. Era buio pesto. A tentoni ripescò, letteralmente, il suo orologio, bagnato zuppo. Fortuna che gli era stato garantito per subacqueo, o sarebbe stato da buttare.
Premette il pulsante della lucina interna, per vedere l’ora, e ne ottenne uno spruzzetto d’acqua in un occhio.
"Tii Tii Tii Tii Tii"
Si asciugò col dorso della mano e poi la allungò per accedere la luce. Sul comodino, la brocca oscillava pericolosamente lungo il bordo. Il libro era immerso nell’acqua, meno male che era Moby Dick. Della sveglia nessuna traccia.
L’orologio segnava le goccia-bollicina-bollicina-chiazza.
"Tii Tii Tii Tii Tii"
Si guardò intorno, e infine localizzò l’aggeggio infernale in cima alla libreria, dall’altro lato del letto. Si arrampicò in puro stile King Kong, l’afferrò e guardò l’ora. Le cinque di mattina. E perché aveva messo la sveglia alle cinque di mattina?
"Tii Tii Tii Tii Tii"
In quell’istante si rese conto che la sveglia non stava suonando. In effetti, a ben vedere, era puntata per le sette. Perché poi avesse messo la sveglia alle sette restava comunque un mistero. Che mai poteva aver da fare così presto?
"Tii Tii Tii Tii Tii"
Eh… però qualcosa che suonava c’era! Realizzò che il suono veniva dalla tasca posteriore del suo pigiama. Il cellulare! Doveva essersi segnato un impegno in agenda, ecco perché suonava! Solo che non riusciva proprio a ricordarsi cosa fosse.
"Tii Tii Tii Tii Tii"
Be’… del resto era per quello che l’aveva messo in agenda, per ricordarselo, giusto?
Estrasse il telefonino dalla tasca e osservò lo schermo, dove lampeggiava la nota che si era scritto: "Ricorda di staccare la sveglia prima che suoni, non hai niente da fare alle sette."

domenica 5 aprile 2009

Influenza

«ET-CCCIUUUU !!!» il suono rimbombò nella stanza come un colpo di artiglieria, e la testa di Jack prese a pulsare allo stesso ritmo. Il ragazzo tentò di riprendere fiato, ma venne interrotto da un improvviso accesso di tosse secca e fastidiosa che lo lasciò sfiatato e ansimante.
Si avvolse più stretto nella coperta che aveva addosso, rinunciando perfino ad asciugarsi le lacrime che gli scendevano dagli occhi per non doversi scoprire le mani. In qualche modo riuscì a prendere il telecomando senza abbandonare il rifugio della coperta, e accese la televisione.
“… mia di influenza sta propagandosi a macchia d’olio nel continente. – stava dicendo lo speaker del telegiornale mentre sul video scorrevano scene di repertorio di gente messa non molto meglio, se non peggio, di Jack stesso – Finora i trattamenti antibiotici si sono dimostrati…”
La porta alle spalle di Jack si spalancò di botto calamitando la sua attenzione.
“Buongiorno!” annunciò sua madre entrando, con l’aria di chi ha appena vinto la lotteria, un sorriso da orecchio a orecchio. Lui si chiese cosa mai ci fosse di buono in quel giorno, e rispose con un mugugno incomprensibile.
“Come ci sentiamo oggi?” chiese ancora sua madre, usando il plurale come se condividesse le sue sofferenze.
“Bale.” bofonchiò lui, ma la donna era passata oltre e non lo stava ascoltando. La osservò con terrore mentre si avvicinava alla finestra e la spalancava.
“Ba babba! – protestò, odiando ogni singolo suono nasale che si ritrovava a emettere – Io sdo bale!”
“Quante storie! Se non fai cambiare un po’ l’aria non guarirai mai!” lo zittì sua madre, scaraventandosi poi fuori dalla stanza e chiudendosi la porta alle spalle.
Jack sospirò, cosa che non gli riuscì troppo bene, e si obbligò a scendere dal letto per andare a porre rimedio alle strane idee della madre.
Però non mi era parsa tanto ottimista quando ce l’aveva lei l’influenza – pensò mentre strisciava i piedi verso il lato opposto della stanza. Era quasi giunto quando inciampò nella coperta, che si era guardato bene dal togliersi di dosso, e finì lungo disteso in terra. Fece per rialzarsi e prese in pieno con la nuca il vetro aperto, rimbalzando indietro come uno strano incrocio tra una palla e un sacco di patate.
“Ba porga biseria!” imprecò mentre si metteva a quattro zampe per poi tornare in piedi con maggior cautela.
Chiuse la dannata finestra e se ne tornò al letto, su cui si sedette nuovamente.
“… tempo, alcuni soggetti hanno per…” diceva il giornalista un attimo prima che Jack cambiasse canale. L’immagine sullo schermo venne sostituita da quella di un affarino peloso che litigava con un serpente grosso il doppio di lui. Jack ebbe il tempo di sentire “… la mang…” prima di decidere che quella trasmissione non faceva per lui e cambiare nuovamente.
Al posto degli animali apparve una strana animazione, una specie di ameba che veniva assalita da qualcosa che assomigliava a un modulo per l’atterraggio lunare appena abbozzato. “… i virus sostituiscono il DNA delle cellule con…”
Jack si affrettò a cambiare di nuovo, ritrovandosi a osservare una Nicole Kidman in evidente stato alterato che cercava di rapire un bambino. Aveva già visto quel film e non aveva alcuna voglia di rivederlo, per cui spense la televisione e si voltò verso il comodino per prendere il bicchiere e bere un sorso d’acqua.
La prima parte si rivelò facile, la seconda impossibile, perché il bicchiere era vuoto.
“Uff!” sbuffò Jack – almeno quello gli riusciva ancora – e si alzò per andare a prendersi da bere di sotto. Questa volta fece attenzione a sollevare a sufficienza la coperta prima ancora di girare attorno al letto e imboccare la porta. Scese uno scalino alla volta e arrivò a pochi metri dalla porta della cucina quando sentì delle voci provenire proprio da lì, e si bloccò non riuscendo a riconoscerle.
“Quanto credi che gli ci vorrà?” sentì dire da una voce femminile e arrotondata, che gli ricordava molto quella di sua madre, ma al tempo stesso non era la sua.
“Non molto ancora. Un giorno o due e poi anche lui sarà completo.” rispose quello che era evidentemente un uomo. Non suo padre, a meno che non gli si fosse improvvisamente modificata la laringe, ma pure non tanto diverso da lui.
Cercando di non fare rumore, Jack fece qualche altro passo e azzardò un’occhiata oltre lo stipite della porta, tenendosi il più possibile nascosto. Quello che vide, per poco non lo fece saltare indietro, e a stento riuscì a trattenere un grido.
Due… creature, non c’era altro modo di definirle… si trovavano nella sua casa. Avevano pelle verde e squamata, come quella dei serpenti, occhi gialli e sporgenti, con pupille verticali a fessura e… indossavano i vestiti dei suoi genitori!
Gli esseri non parvero accorgersi di lui, e continuarono la loro conversazione.
“Sicuro che stia andando tutto bene?”
“Certo, ha tutti i sintomi, la trasformazione è già in atto ormai. Una volta che tutto il suo DNA sarà stato risequenziato…”
Jack si perse il resto della frase cercando di comprendere il senso di ciò che aveva sentito. Parlavano di lui? Possibile che quelli fossero…
I suoi ragionamenti vennero interrotti da una familiare quanto fastidiosa sensazione di prurito al naso. Di tutti i momenti in cui avrebbe potuto succedergli…
Prese a indietreggiare, cercando di trattenere lo starnuto il più possibile.
«ET-CCCIUUUU!!!»
SBAM!
Senza essere troppo sicuro di come fosse accaduto, si ritrovò a perdere l’equilibrio e atterrare di sedere sul pavimento. La caduta fu attutita dalla coperta, ma il vero problema era un altro, e non tardò a presentarsi. I due rettili umanoidi, infatti, sbucarono fuori dalla cucina un istante dopo… solo che non erano più rettili umanoidi, ma semplicemente i suoi genitori.
“Jack!” lo apostrofò la madre
“Stai bene?” gli chiese di rimando il padre
“Che è successo?”
“Ti sei fatto male?”
“Se volevi qualcosa potevi chiamarmi.”
L’improvvisa ondata di attenzioni era fin troppo sospetta perché Jack non percepisse che qualcosa non andava. Certo… anche l’aver visto i mostri rettiliformi in cucina era un indizio da non sottovalutare.
“Io… io…” prese a bofonchiare lui, cercando con lo sguardo il bicchiere che gli era sfuggito di mano. Lo individuò poco distante da lui; era atterrato su un angolo della coperta, che lo aveva salvato dall’andare in frantumi. Lo afferrò come fosse stato un salvagente in un mare in tempesta.
“Aggua! – esclamò – Ero sceso a breddere dell’aggua.”
“Dammi, te lo riempio.” replicò quella che sembrava sua madre, allungando una mano verso il bicchiere… o forse verso il suo braccio.
“Do, do, vaggio io.” rispose lui, indietreggiando per rialzarsi con le spalle alla parete.
Strisciò verso la cucina restando rasente al muro, e senza mai togliere gli occhi di dosso ai due finti genitori, che per conto loro si scambiarono alcune occhiate indecifrabili. Raggiunse il lavandino e aprì il rubinetto, iniziando a riempire il bicchiere con esasperata lentezza. Il suo sguardo dardeggiava ovunque nella stanza mentre tentava di decidere il da farsi. I due mostri erano ancora fermi sulla soglia.
All’improvviso, in un lampo di ispirazione, lasciò cadere il bicchiere nel lavello, sfilò un coltello dal ceppo poco distante e si diede a una fuga disperata in direzione della porta che dava nel cortile. Stava per afferrare la maniglia quando si ritrovò improvvisamente di fronte il rettile con gli abiti di sua madre.
“Dove stavi cercando di andare?” sibilò questo facendo saettare tra le labbra la sua lingua biforcuta, ogni pretesa di apparire umano oramai abbandonata.
Jack non si perse d’animo. Sollevò il coltello e lo piantò a fondo nel petto della creatura, facendone sprizzare del sangue verdastro che gli impregnò il pigiama. Si ritenne fortunato per non poterne sentire l’odore, immaginando che dovesse essere davvero disgustoso.
Due zampe artigliate gli afferrarono il polso, ma il sangue lo aveva reso abbastanza viscido da permettergli di sfuggire alla presa e sferrare una seconda coltellata, stavolta in uno degli orrendi occhi gialli del rettile, che si afflosciò al suolo come un sacco vuoto.
Per un attimo, Jack aveva dimenticato il secondo mostro, che immediatamente gli fu addosso. Ruotando su sé stesso meglio che poteva, il ragazzo lo ferì a un braccio con un veloce fendente, ma un istante dopo sentì un colpo al petto e si ritrovò a volare verso una parete. Ebbe appena il tempo di registrare che il mostro morto aveva nuovamente assunto le fattezze di sua madre prima di urtare violentemente la testa contro uno dei pensili della cucina e precipitare nel buio più assoluto.

Quando riaprì gli occhi stava fissando il pavimento. Quello della sua camera da letto.
Sbatté le palpebre un paio di volte, cercando di capire come fosse arrivato lì. La nuca gli faceva male, e così anche il petto, ma questa non era una grossa novità visti i frequenti accessi di tosse.
Tentò cautamente di rialzarsi. Uno spiffero freddo proveniente dalla finestra aperta gli soffiava sulla schiena, mentre una voce distorta parlava dal lato opposto della stanza. Ci mise qualche secondo a capire che si trattava della televisione.
“… lo stadio più acuto della malattia ha portato alcune vittime a soffrire di allucinazioni e perdere la cognizione dello spazio e del tempo, alcuni soggetti hanno perfino affermato di aver vissuto uno sbalzo temporale, tornando a loro dire indietro nel tempo di diversi minuti…”
Jack si rimise in piedi e chiuse la finestra, poi si tastò la nuca, trovandovi un bernoccolo in formazione. Era stato il pensile della cucina o l’anta della finestra a causarglielo?
Si guardò intorno, constatando che tutto era normale nella stanza. Il suo pigiama, per quanto possibile, era pulito; non c’erano tracce di sangue, né suo né dei mostri. Il bicchiere, vuoto, era al suo posto sul comodino.
Incerto, raggiunse la porta, la aprì e si affacciò.
“Babba?” chiamò
“Sì Jack, ti serve qualcosa?” gli rispose dopo qualche istante la voce della donna dal piano di sotto.
“Uh... do, do, diedde.” bofonchiò lui in risposta.
Possibile che si fosse sognato tutto quanto?
Al telegiornale avevano parlato di allucinazioni in effetti...
Ritornò a letto e si infilò sotto le coperte. Forse avrebbe fatto meglio a cercare di dormire.
Certo che tra la febbre e la botta il suo cervello gli aveva giocato veramente un brutto scherzo – pensò mentre scivolava nel sonno – sicuramente era rimasto influenzato dalla scene che aveva visto in televisione poco prima, tra serpenti, DNA e invasioni di alieni che sostituivano gli esseri umani.
Sì... non poteva che essere così... le scene che aveva visto... dopo aver chiuso la finestra...

giovedì 2 aprile 2009

Stati di Allucinazione

“Allora?”
La domanda giunse tanto improvvisa da fargli sgranare gli occhi, risvegliandolo dal suo torpore. Sollevò la testa e fissò l’ometto calvo e occhialuto che lo guardava dall’alto, poi abbassò lo sguardo sulle proprie braccia, ancora incrociate sulla scrivania, che gli avevano fatto da cuscino fino a poco prima.
“Eh? Cosa?” balbettò.
“Le pare il momento e il posto per dormire?!? – gli urlò contro l’ometto, spruzzando saliva peggio di un irrigatore da giardino – Vuole che la licenzi, per caso?”
“Ma che…? Licenziarmi? E quando mai…?” Sempre più confuso prese a guardarsi intorno. Davanti a lui, su uno schermo LCD, pipistrelli da cartone animato inseguivano una donnina discinta in quello che doveva probabilmente essere uno screensaver. Tutto lasciava pensare che si trovasse in un ufficio… ma a fare cosa? Lavorare? Lui? Ridicolo!
L’ometto, intanto, aveva ripreso a urlare. Lui neanche cercò di capire cosa. Allungò una mano e fece per prenderlo per il collo, ritrovandosi ad afferrare l’aria, perdere l’equilibrio per il troppo slancio e finire dritto in terra, sbattendo la faccia sul pavimento.Si rialzò, e un rivoletto di sangue gli scese dalle labbra.
L’ometto non c’era più. L’ufficio neanche. Ora si trovava di fronte a una grande lavagna nera, e una donna asciutta e segaligna con un paio di occhialetti a punta lo fissava con aria torva, agitando una bacchetta.
“Ha intenzione di venire all’interrogazione o no?”
Mentre si rialzava, la guardò con occhi fiammeggianti, che non parvero suscitare in lei la benché minima reazione.
“E si copra! Che diamine! Dove crede di essere?”
A quelle parole, abbassò lo sguardo e notò solo allora di essere praticamente nudo, a eccezione di un paio di ridicoli boxer su cui erano ricamati dei lupetti con un ciuccio in bocca. Senza neanche sapere perché, portò istintivamente le mani a coprirsi le parti basse.
“Ha studiato?” lo incitò la maestra
“No che non ho studiato, che ca…” venne interrotto da una bacchettata dritta sulle gengive. Qualcuno alle sue spalle lanciò un aeroplanino di carta che gli si infilò in un orecchio.
Si voltò di scatto, e nel farlo si ritrovò accidentalmente a infilare il braccio sotto quello di una perfetta sconosciuta vestita di bianco, che si girò e gli mostrò un sorriso a sessantaquattro denti, incurante del suo sguardo allucinato.
Davanti a lui si stendeva la scalinata di una chiesa, con un lungo tappeto rosso sangue che si snodava dall’altare fino a sotto i suoi piedi. Le campane suonavano a festa mentre dall’interno proveniva una musica inconfondibile.
Si rese conto quasi di sfuggita che i suoi boxer erano stati sostituiti da uno smoking impeccabile, completato da un ampio mantello nero abbastanza fuori luogo… no, a ben pensarci era tutto il resto a essere fuori luogo.
“Eh no! – sbottò – Questo è veramente troppo!”
Sfilò il braccio da quello della presunta sposa e fece una sorta di saltello, che nelle intenzioni avrebbe dovuto avere ben altro esito, ma che finì solamente per farlo cadere di nuovo faccia in terra.
Quando si risollevò, la testa gli faceva male e gli sembrava che tutto il mondo gli stesse girando attorno. Se non altro, però, era un mondo che conosceva.
Si stropicciò gli occhi, cercando poi di rimettere a fuoco… le pareti erano quelle del suo castello, la sua bara era lì a due passi. Sospirò di sollievo.
“Mai più, giuro mai più mangiare con uno sconosciuto senza prima un esame del sangue, tossici del piffero!”