sabato 24 gennaio 2009

Ombre

Viveva al secondo piano di una palazzina senza ascensore.
Doveva percorrere le quattro rampe di scale più volte al giorno, quasi sempre da sola.
Neppure lei sapeva quando fosse iniziato esattamente, quando avesse notato per la prima volta le ombre. Forse fin da quando si era trasferita.
Ogni volta che passava per le scale, c’era sempre un’ombra proiettata sulla parete di fronte a lei, che si muoveva come se qualcuno fosse stato lì, proprio oltre il margine del suo campo visivo, a scendere o salire poco prima di lei. Anche se in realtà non c’era mai nessuno.
All’inizio era stata proprio l’idea della presenza di qualcuno a spaventarla. Non che lei fosse l’unica inquilina, ovviamente, ma i suoi vicini non erano esattamente silenziosi e furtivi quando passavano. Qualcuno che si muoveva in quel modo, senza far rumore e senza farsi notare, avrebbe potuto essere un intruso.
In seguito, comunque, una volta constatato che nessuno si era introdotto nel palazzo, era stata appunto l’assenza di qualcuno a instillarle quel timore irrazionale. Chi, o cosa, precedeva il suo passaggio?
Era arrivata a convincersi che si trattasse semplicemente di un gioco di luce, per quanto improbabile fosse il suo ripetersi e manifestarsi a prescindere dall’ora del giorno, o dal fatto che la luce sui pianerottoli fosse accesa o meno.
Razionalmente, si ripeteva, non poteva trattarsi d’altro. Questo comunque non le impediva di sobbalzare ogni volta che scorgeva quell’ombra.
Aveva perfino pensato di cambiare casa, come se fosse stata una cosa semplice. Oltretutto, si sarebbe sentita estremamente stupida ad affrontare un trasloco per un motivo talmente futile e irrazionale.
Finché, una sera d’inverno, appena entrata nel portone, si sentì afferrare alle spalle in una gelida morsa.
Qualcosa di freddo, morbido e liscio le chiuse la bocca, e per un attimo credette che l’oggetto delle sue paure avesse infine preso corpo e sostanza per aggredirla.
Poi una voce rozza le sussurrò all’orecchio “Fai la brava e non ti faccio niente”, terminando la frase con un osceno sghignazzo. L’alito che le giunse alle narici era caldo e maleodorante.
Per un assurdo istante, fu quasi sollevata all’idea che il suo aggressore fosse qualcosa di concreto e tutt’altro che soprannaturale. Il sollievo lasciò però rapidamente spazio a una paura differente ma non meno forte.
Non tentò neppure di sfuggire a quell’uomo, sapendo bene che non ci sarebbe mai riuscita. Non si divincolò neppure quando sentì il freddo metallo di una lama sfiorarle la gola.
“Ora andiamo a casa tua.” le disse l’uomo trascinandola verso le scale e iniziando a salire, tirandosela dietro.
Il coltello le graffiò la pelle, stillandone una goccia di sangue.
Poi, all’improvviso, sentì la presa che la tratteneva allentarsi. Udì, più che vedere, il coltello che cadeva, rimbalzando sugli scalini, e si ritrovò seduta senza capire esattamente come, o cosa, fosse accaduto.
L’uomo la superò con un balzo, quasi volando oltre la sua testa. Atterrò malamente ai piedi delle scale. Si rialzò. Ricadde. Si rialzò nuovamente.
Lei vide i suoi occhi fissarla, o meglio guardare nella sua direzione senza però vederla, come se il loro obiettivo fosse stato qualcosa oltre lei. L’espressione sul suo volto era di orrore puro.
Lo vide voltarsi e fuggire, biascicando qualcosa di incomprensibile e rischiando nuovamente di finire in terra, tanta la fretta di allontanarsi da lì.
Il suo terrore non scemò per un solo istante, limitandosi a una rapida metamorfosi.
Si voltò di scatto, volendo affrontare faccia a faccia qualunque cosa la attendesse dietro le sue spalle. Tutto ciò che vide fu un’ombra ormai familiare, come se qualcuno stesse salendo poco più avanti.

Viveva al secondo piano di una palazzina senza ascensore.
Doveva percorrere le quattro rampe di scale più volte al giorno. E non era mai sola.

martedì 20 gennaio 2009

Sognerai di me

Il buio le si stringeva attorno, opprimendola come le braccia di un amante molesto. Anche con gli occhi aperti non vedeva nulla, ma si ostinava a non chiuderli.
Se li avesse chiusi, si sarebbe addormentata.
Se si fosse addormentata, avrebbe sognato.
Se avesse sognato, avrebbe sognato lui. E mai come in quella notte la sua anima era stata dilaniata dal desiderio e dal terrore che ciò accadesse.

“Sognerai di me”, le aveva detto, in quel loro unico, fugace incontro, e così era stato. Notte dopo notte dopo notte. Per quasi un anno intero.

Ancora ricordava la prima volta, la prima sorpresa visita a quel luogo idilliaco e incantato che sarebbe presto divenuto la sua casa di notte tanto quanto la fredda città lo era di giorno.
Lui l’aveva accolta come una gradita ospite, e per quella e tante altre notti ancora avevano parlato. L’aveva corteggiata come un gentiluomo d’altri tempi, e quando l’aveva infine amata era stato con una dolcezza e un trasporto che mai alcun amante in carne e ossa le avevano fatto provare.
Poi le aveva insegnato a cacciare.
Ogni notte di luna piena, insieme inseguivano la loro preda fino a sfinirla e catturarla, per poi ucciderla.
Le prime volte lei gli aveva corso accanto, senza realmente partecipare, inebriandosi della sensazione di libertà e di forza che quel semplice atto le dava. Una sensazione che ancora provava ogni volta, anche dopo aver compreso, quasi vergognandosene come di un piacere empio e clandestino del quale non fosse stata in grado di privarsi.
Si era in seguito unita a lui nell’atterrare la preda, aiutandolo a immobilizzarla, ma sempre restando da parte mentre lui la dilaniava, cibandosene mentre lei lo osservava, atterrita e affascinata.

Diverso tempo era passato nel mondo della veglia, che ormai le appariva tanto più irreale dei panorami onirici in cui trascorreva la sua seconda vita, prima che iniziasse a comprendere, ad annodare i fili di quell’oscura vicenda. Prima che capisse che le vittime di quella caccia sfrenata non si limitavano a morire nel sogno.
Terrorizzata, aveva ceduto alla paura di essere divenuta folle. Possibile, forse, che camminando nel sonno avesse compiuto quei delitti che il suo tenebroso amante sconosciuto - da sveglia sembrava incredibile che ancora non ne conoscesse il nome - perpetrava dinanzi ai suoi occhi? Eppure quelle ragazze erano morte nei loro letti, troppo lontane dalla sua abitazione perché avesse potuto realmente recarvisi in preda al sonnambulismo.
Aveva cercato ogni genere di conferma alla sua situazione, accertandosi infine di non aver mai lasciato il suo letto, comprendendo che la verità era differente, sebbene non meno terribile.
Ma nel sogno era tutto così naturale, così estasiante che mai i suoi pensieri di dormiente avevano fatto eco alla volontà di ribellione che provava da sveglia.
Aveva tentato di rifuggire i sogni, di restare sveglia, ma nulla l’aveva aiutata a farlo, neppure i farmaci. Ma quella notte, quella notte doveva riuscirci, perché altrimenti sapeva che non sarebbe più potuta tornare indietro.
Era il dodicesimo plenilunio dal suo primo incontro con lui, ed era giunto il momento che fosse lei a completare la caccia, lei a uccidere, lei a sbranare.

Poco dopo aveva abbandonato i suoi pensieri nel freddo mondo reale, e stava correndo spensierata sull’erba con lui al suo fianco, le labbra incurvate in un sorriso sinistro.
Insieme raggiunsero la preda, insieme la bloccarono, gettandola a terra e inchiodandovela con la propria forza. Poi lui si fece da parte, invitandola a finire ciò che aveva iniziato.
Lei esitò.
Lui le si fece vicino, incoraggiandola senza forzarla, sapendo che avrebbe fatto quel che doveva.
Lei si sporse in avanti. Guardò gli occhi della ragazza, così pieni di terrore.
Di scatto si voltò verso di lui, le zanne snudate e un lampo sanguigno negli occhi.

Due giorni dopo era ferma davanti a un chiosco di giornali, a leggere dell’ennesimo sanguinoso omicidio poco dopo essersi svegliata dal suo primo viaggio in quel mondo senza di lui. Un uomo di buona famiglia, benvoluto da tutti, una tragedia inspiegabile, come le precedenti.
L’edicolante richiamò la sua attenzione schiarendosi la gola. Lei gli sorrise e prese una moneta dalla borsa, porgendogliela.
La mano si soffermò solo un istante sopra quella di lui, mentre i loro occhi si incontravano.
“Sognerai di me.” gli sussurrò.

venerdì 16 gennaio 2009

Condannato

Dopo la forzata e forzosa immersione a testa in giù era zuppo, grondava letteralmente, e questo in qualche modo sembrava aumentare l’interesse del suo aguzzino. I suoi denti si avvicinavano senza che potesse far nulla per tenerli lontani, stretto com’era nella sua solida presa.
Tutto sommato, ad alcuni degli altri erano toccati destini peggiori. Qualcuno era stato pestato fino a diventare irriconoscibile, altri lasciati a mollo così a lungo da iniziare a sfaldarsi. Per lui sarebbe finita molto più velocemente. Un morso, forse due, poi non ne sarebbe rimasto più nulla.
Non c’era molto da dire, era una condanna a cui era stato destinato fin dal primo momento.
Del resto, come altro può finire per un biscotto?

martedì 13 gennaio 2009

L'incubo di Stan

La notte era appena iniziata quando Stan si risvegliò di soprassalto rizzandosi a sedere sul suo giaciglio, ormai zuppo di quel sudore che continuava a scendergli lungo la fronte. Nella sua mente le immagini dell'incubo appena avuto erano ancora tanto vive che avrebbero potuto gelargli il sangue.
Nel sogno, qualcuno era entrato in casa mentre lui dormiva e... no... meglio non ripensarci.
Strano che i sogni possano sembrare tanto reali, pensò mentre tentava di asciugarsi il volto impallidito, eppure...
Il rumore di un'imposta che sbatteva al piano di sopra lo fece trasalire. Era certo di aver chiuso tutte le finestre. E se... ma che stupidaggine! I sogni sono solo sogni, niente di più, e quello non era poi tanto diverso dai soliti... magari solo un po' più spaventoso, tutto qui! E la finestra... be’, doveva essere stata una dimenticanza, perché preoccuparsene tanto?
Rinunciò ad asciugarsi, gli sembrava di essere stato immerso nel fango, e si sedette a gambe incrociate tentando di scacciar via dalla sua mente i residui dell'incubo. In fondo, pensò nel tentativo di tranquillizzarsi, se fosse davvero successo quel che aveva sognato se ne sarebbe già accorto. ... o no?
Si rimproverò nuovamente per l'aver dato tanto credito a qualcosa che non poteva assolutamente essere, ma ormai era più forte di lui, e non poté fare a meno di portarsi una mano sul collo. I suoi polpastrelli sfiorarono due piccoli rigonfiamenti, simili a punture di insetto, in corrispondenza della giugulare. Una goccia di sangue gli macchiò le dita. Non poteva essere ciò che pensava... non doveva esserlo.
Si alzò di scatto e corse in bagno per mettersi davanti allo specchio, ma la fredda lastra non gli rimandò alcuna immagine del suo volto.
Ancora tremante, si sfiorò i denti con la lingua, passando più volte sui canini. Erano lunghi ed appuntiti come le zanne di una belva.
Si diresse alla finestra ed osservò per un attimo l'ultimo quarto di luna. Il suo corpo sembrò mutarsi in nebbia, per poi rapprendersi nella forma scura di un enorme pipistrello.
Diede un'altra occhiata alla sua bara ed uscì in volo.
Certo, però, che era stato davvero stupido a preoccuparsi tanto per un banalissimo incubo.

sabato 10 gennaio 2009

Impossibile

Non riusciva più a dormire, e quelle rare volte in cui il sonno si impadroniva di prepotenza del suo corpo e della sua mente, sognava lui, sempre lui.
Lui, che non avrebbe mai potuto avere e che pure non poteva smettere di desiderare. Lui, così vicino ma sempre così distante.
Trovava migliaia di scuse banali solo per passargli accanto, per rivolgergli uno sguardo. Quando non poteva neppure vederlo passava il tempo a pensare a lui, la sua capacità di concentrarsi era quasi del tutto estinta, lui si intrufolava nei suoi pensieri in ogni momento. Non riusciva più a pensare ad altro, non riusciva più a vivere.
Pensava a tutto quello che avrebbe potuto dirgli, e che non gli avrebbe mai detto. A tutto quello che avrebbe potuto fare e non avrebbe mai fatto.
Quando lui era lontano, stava male. La sua sola presenza, uno sguardo, un gesto, anche banale, meccanico, bastavano a modificare radicalmente il suo umore, almeno per quei pochi secondi, poi lui si allontanava e tutto tornava come prima, peggio di prima.
Lui era divenuto il suo centro dell’universo, e non sapeva neppure di esserlo. Non era in grado di interpretare i suoi sguardi, le sue parole. Non poteva cogliere i suoi pensieri. E se mai avesse potuto, probabilmente le cose sarebbero peggiorate, perché sapeva che non avrebbe dovuto provare ciò che provava, che quello che sperava si realizzasse era in realtà impossibile. Se lui avesse potuto sapere…
Ma la situazione era ormai insostenibile, una continua battaglia tra la logica, che sottolineava quanto tutto ciò fosse assurdo, privo di ogni fondamento, e qualche altra cosa indefinibile che si ostinava a perseverare, che impediva anche solo di provare a dimenticarlo. La sua psiche era in condizioni pietose, nei rari momenti in cui lui non impegnava interamente i suoi pensieri non poteva fare altro che maledirsi per aver lasciato che tutto questo iniziasse, ma non c’era nulla che potesse fare. Non più, se mai c’era stata.
Sebbene avesse sempre odiato i gesti estremi, era sempre più incline a pensarci. Dapprima liquidava semplicemente il pensiero come una sciocchezza dettata da un attimo di sconforto, ma man mano che gli attimi di sconforto avevano cessato di essere attimi per divenire la norma, man mano che il pensiero si affacciava con frequenza sempre maggiore alla sua mente, allontanare l’idea era diventato sempre più difficile. Se non poteva averlo, che cosa restava? Nulla, assolutamente nulla, tanto valeva scegliere l’oblio.
Quella mattina svuotò tutti i cassetti, sapeva che in casa, da qualche parte, c’era una pistola, e non faticò a trovarla dopo qualche ricerca. Rimise tutto a posto con grande cura, non voleva che qualcuno si accorgesse di quello che stava per fare, non prima che fosse troppo tardi per impedirlo.
E andò da lui per un’ultima volta.
Attese finché lui non si avvicinò. Si vide rivolgere il suo consueto sorriso, lui non poteva sapere che era l’ultima volta in cui glielo avrebbe rivolto. Non attese neppure che si allontanasse, esplose due colpi in rapida sequenza e l’animatrone nella vetrina andò in pezzi, molle ed ingranaggi gli si sparsero intorno mentre un filo di fumo iniziava a sollevarsi ondeggiando dai circuiti danneggiati.
Ora non avrebbe più potuto essere di nessuno.

mercoledì 7 gennaio 2009

Più di ogni cosa

Non era assolutamente possibile, chiunque lo avrebbe asserito senza tema di smentite, nondimeno il fatto che egli… esso… insomma il fatto che fosse lì davanti a loro era una dimostrazione più che valida del contrario, o forse no.
Era ovvio che la prima cosa a cui tutti avevano pensato era un’allucinazione. Del resto esistevano anche le allucinazioni collettive, non era forse vero? Magari assieme a tutta la polvere avevano respirato chissà cosa e quello era il risultato, anche se nessuno di loro aveva espresso apertamente questa opinione.
C’era però anche da dire che come allucinazione era straordinariamente realistica, altro che effetti speciali cinematografici. Si potevano distinguere i pori della sua pelle, i movimenti ritmici della respirazione – ma era normale poi che respirasse? – e la voce poi, qualcosa di simile non avrebbe potuto essere originato da un’allucinazione o da un delirio febbrile, no di sicuro, non poteva che essere reale. Ma come poteva essere reale? Queste cose esistevano solo nelle favole, e favole decisamente datate per di più, quasi fuori moda.
Allora, avete deciso?” domandò nuovamente la creatura, e ancora una volta nessuno dei tre poté parlare. Forse si sentivano stupidi a rispondere ad un’allucinazione, ma forse più che altro avevano paura che non lo fosse.
“Ma alla fine che cosa abbiamo da perdere?” domandò all’improvviso uno di loro, quasi più a se stesso che agli altri due. “Male che vada non succederà niente e avremo fatto la figura degli stupidi, ma a parte noi tre chi lo saprà mai?”
Il secondo non poté evitare di rivolgere un’occhiata nervosa alla cosa che gli stava davanti, vicina a sufficienza da poter essere toccata, per quanto lui non avesse la benché minima intenzione di farlo, neppure per scoprire se era veramente solida e tangibile. “E se fosse tutto uno scherzo, se qualcuno ci stesse prendendo in giro?”
“Beh, che se la rida pure. – ribatté il primo - Non sto dicendo che ci credo davvero, ma che cosa ci costa? Ah, lasciate perdere, se proprio non volete provare lo faccio io.”
“Stai attento, ricordi quella storia…”
“Lascia stare le storie adesso – tagliò corto il primo, poi si rivolse all’essere – Hai detto qualunque cosa?”
Qualunque cosa.” confermò questi.
“Allora voglio un biglietto vincente della lotteria, vediamo se ti riesce.”
La cosa parve riflettere un attimo, poi tese un rettangolino di carta al suo interlocutore. Questi rimase per un attimo a osservarlo, incerto. Allungò la mano lentamente, tentennando, quindi afferrò il biglietto stando ben attento a non sfiorare neppure la mano che glielo stava porgendo.
“Forse… non è stata una buona idea.” commentò il secondo
“Perché no?” gli domando l’altro con tono sprezzante
“Potrebbe essere qualunque cosa… come fai a sapere che vincerà?”
“Aspetterò come tutti immagino. Voi due piuttosto? Pensate di chiedere qualcosa o devo approfittarne io?”
“Ecco… - il secondo tentennò, nervoso. Alla fine si decise a rivolgere la parola a quello che per lui restava una specie di sogno ad occhi aperti – Puoi… puoi davvero fare tutto?”
Tutto.” ripeté l’essere con il tono che si sarebbe potuto usare per spiegare qualcosa ad un bambino ritardato.
“Allora vorrei… vorrei non dover più sopportare il mio datore di lavoro con tutte le sue richieste assurde.” sbottò l’uomo. L’essere si limitò ad annuire con un cenno del capo.
“E poi sarei io quello che non ha le buone idee… voglio proprio vedere come farai a sapere se questa cosa ha avuto effetto.”
“Beh…” tentò di rispondere il secondo, ma non finì la frase vedendo che la cosa aveva rivolto il suo sguardo al terzo uomo, che era rimasto in silenzio per tutto il tempo. Inevitabilmente questi si ritrovò puntati addosso anche gli sguardi dei suoi due compagni, sebbene nessuno di essi si decidesse a dirgli nulla. Alla fine fu proprio la creatura che non avrebbe dovuto esistere a parlare.
Tu non mi domandi nulla?
L’uomo tacque ancora. Rifletté. Poi rispose. “No.”
Sprecherai il tuo desiderio.
“Non voglio nulla.” ripeté lui.
Eppure so che vorresti qualcosa. Qualcuno.
“No.”
Io posso darti ciò che vuoi, non è un sogno. Devi soltanto chiederlo.
“No, ti dico che non voglio nulla.”
Posso far sì che ti ami, non è questo che vuoi? Posso leggerlo dentro di te, è inutile che lo neghi, so che è questo che desideri.
“No. Non da te, non così. Forse potresti davvero darmi quello che desidero, ma non lo voglio a questo prezzo.”
Non ho chiesto nulla in cambio.
“No, certo. Il prezzo sarebbe sapere che non è per me che verrei amato, sapere che la mia felicità è a prezzo della sua, che per me è di gran lunga più importante.”
Se è così, hai già più di quanto io possa darti. Rinuncia alla tua possibilità di esprimere un desiderio, e io me ne andrò.
“Rinuncio.” Rispose lui, incurante degli altri due che tentavano di fermarlo
Così sia.” disse la creatura, e scomparve così come era apparsa, in uno sbuffo di fumo.
“Ma cosa sei, idiota?” quasi urlò il primo dopo che il fumo si fu dissolto “Magari era tutto uno scherzo, ma se non lo fosse stato? Avresti potuto almeno tentare.”
Non ci fu risposta, se non un sorriso amaro, mentre l’unico dei tre ad aver rinunciato alla propria possibilità si voltava ed usciva lentamente dal locale. Ebbe appena il tempo di sentire un ultimo scampolo di conversazione prima di essere in strada, dove il suono delle voci non poteva più raggiungerlo a causa della distanza e dei rumori del traffico.
“Almeno a me basterà aspettare… ma… che scherzo è questo? È dell’anno scorso, questo biglietto non vale nulla!”
“Ti avevo detto di stare attento. Hai chiesto un biglietto vincente, e immagino che quello lo sia… il biglietto vincente dell’anno scorso. Se lo guardi bene probabilmente scoprirai che è già ann…” poi i rumori inghiottirono le voci, e la vita riprese il suo corso.


Era già il sesto squillo. Non aveva nessuna voglia di rispondere, ma probabilmente era l’unico modo per farlo smettere.
“Pronto?”

“Oh… sei tu? Come mai… voglio dire, credevo non avessi neppure il mio numero…”

“Te l’ha dato lui? Sì, ho saputo che è stato licenziato, mi hai chiamato per quest… come?

“I…io… ma… come lo sai?”

“No, no certo, non ne ha, ma non avrei voluto che…”

“Tu? Me? Ma che cosa significa? Starai scherzando…”

“Ma come… voglio dire, non avrei mai pensato che…”

“Come? Sì, sì, ci sono ancora… solo un po’…”

“Vederci? Certo, quando?”

“Allora ci vediamo lì tra poco… A presto.”

Riabbassò la cornetta e sorrise, senza amarezza. Il genio aveva ragione, lui aveva già più di quanto gli avrebbe mai potuto dare, solo che fino a quel momento non lo aveva mai saputo.

martedì 6 gennaio 2009

Il Pozzo

Il cerchio luminoso sopra di lui sembrava quasi farsi beffe della sua situazione, irriderlo con la promessa di una liberazione tanto vicina quanto irraggiungibile.
Le gambe gli tremavano per il freddo e per lo sforzo di mantenere la presa sulle pietre viscide della parete, aggrappandosi con ogni oncia della propria forza ai pochi e scomodi appigli.
Una caviglia era gonfia, a stento lo avrebbe sostenuto in piedi, figurarsi reggerlo in quella posizione. Ma non poteva certo permettersi il lusso di pensarci.
Il braccio destro era conciato anche peggio. Quasi certamente si era rotto nell’impatto col fondo asciutto, e solo muoverlo gli causava dolori lancinanti. A ogni fitta, stringeva i denti e continuava. Se anche avesse rischiato di restare invalido, il suo obiettivo era rimanere vivo, al resto avrebbe pensato poi.
Centimetro dopo centimetro, ignorando la fatica e il dolore, arrancava scorticandosi le mani, spezzandosi le unghie, graffiandosi il volto, verso quella luce, quella luce che…
Scomparve.
Di colpo.
Lasciandolo al buio.
Cercò di urlare la sua frustrazione, l’orrore, ma emise solo un verso inarticolato dalla gola riarsa, un suono che si perse in una serie di tonfi provenienti dall’alto, la cui eco rimbalzava tra le pareti.
Inspirò, riempiendosi i polmoni di un’aria fredda che sembrava composta di piccole lame affilate, e di nuovo tentò di gridare. Perse la presa con un piede. Espirò uno sbuffo d’angoscia.
Lo spuntone di roccia sembrò sfuggirgli via dalla mano con astuta determinazione. Si ritrovò appeso per un breve, fragile istante al braccio rotto, che non riuscì a sostenerlo.
La caduta fu meno dolorosa della prima volta, la distanza era più che dimezzata.
Si ritrovò sul fondo e solo allora trovò la forza per urlare, e urlare, e urlare ancora.



“Dove te ne vai in giro con un martello?”
“Sono andato a chiudere il vecchio pozzo.”
“Hai fatto bene. Prima o poi qualcuno avrebbe finito per caderci dentro.”

lunedì 5 gennaio 2009

Cappuccetto Rosso

La ragazzina camminava tranquilla lungo il contorto sentiero che attraversava la foresta, facendo oscillare leggermente la mano con cui reggeva il manico del paniere, sempre attenta a non esagerare perché il contenuto non si rovesciasse.
Sapeva che la foresta non era esattamente un luogo sicuro, tuttavia quella rimaneva pur sempre la strada più breve per raggiungere la sua destinazione.
Era arrivata all’incirca a metà strada quando vide un grosso lupo fermo nel bel mezzo del sentiero.
D’istinto si fermò. Fece anche qualche passo indietro prima che la creatura iniziasse a parlarle, in tono gentile e suadente.
“Una bella ragazzina come te - le disse - non dovrebbe girare da queste parti. Non lo sai che è pericoloso?”
“Sì. - rispose lei, cercando di mantenere la voce ferma - Ma devo portare questo paniere a una povera vecchietta malata, e passando da qui farò prima.”
“E perché questa vecchietta vive proprio ai margini della foresta? Non mi sembra un posto adatto, così isolato…”
“Eh, tu dillo a me!” pensò la ragazzina, ma quello che rispose fu “Lo so, poverina, per questo sto andando a trovarla.”
“Eh, che brava ragazzina che sei. - disse il lupo leccandosi le labbra - Davvero buona. E cosa le porti di bello?”
“Le solite cose…” minimizzò lei.
Il lupo le si avvicinò, in effetti anche un po’ troppo, e quasi cacciò il muso nel paniere.
“E non avresti niente per me, dolce ragazzina?”
“Vediamo… - replicò lei mettendo una mano nel cesto - Forse qualcosa adatta a te ce l’ho…”

Non molto tempo dopo, la ragazzina giunse infine in vista della casa. Raggiunse la porta e bussò.
“Chi è?” chiese una voce flebile dall’interno.
“Sono la ragazza dell’assistenza agli anziani.” rispose lei
“Oh, cara. La porta è aperta. Entra, entra, non vedevo l’ora di conoscerti.”
“Non dovresti lasciare la porta aperta, nonnina. Non lo sai che è pericoloso?” chiese lei entrando
“Lo so, lo so. - rispose la vecchietta che giaceva scompostamente nel suo letto - Ho sentito di tutte quelle vecchiette… ma chi vuoi che venga fin qui apposta per fare del male a me?”
La ragazzina non rispose e si avvicinò al letto, poggiando il paniere sul comodino e iniziando ad armeggiarci dentro.
“Che occhi grandi che hai.” disse osservando l’anziana donna.
“È che sono miope e li strabuzzo sempre per vederci. - rispose lei - Oh, ma che bella mantella che hai, me la fai vedere?”
“Meglio di no.” rispose la ragazzina, ma la vecchietta aveva già allungato le mani per afferrarla.
“Occhi grandi e mani lunghe, eh nonnina?”
“Ma che strano. - mormorò la vecchietta - Sembra sporca di… sangue?”
“Già. - replicò la ragazzina mentre estraeva il coltello ancora incrostato del sangue del lupo, lanciando giusto un’occhiata al barattolo di formaldeide in cui galleggiavano gli occhi delle altre vecchiette per controllare che non si fosse capovolto - Perché credi che mi chiamino Cappuccetto Rosso?”

Perché un altro blog

Premesso che non sono un egomaniaco e sono ben conscio del fatto che anche nel primo blog (questo) ci scrivo poco o nulla, si potrebbe giustamente credere che io non abbia necessità alcuna di un secondo blog, se non forse quella di darlo in gestione a una delle mie personalità multiple.
La realtà, però, è che già da tempo avevo intenzione di utilizzare il blog per pubblicare alcuni dei miei mini-racconti, scritti senza un vero perché e ansiosi di vedere la luce da qualche parte.
Il punto è che disperderli nel mezzo di deliri e sproloqui (OK, di altri deliri e sproloqui) mi sembrava poco adeguato, sarei anche stato costretto a spiegare che trattavasi di racconti e non di post più deliranti del solito.
Ecco qui la soluzione, dunque... Dato che il sito mi consente di gestire agevolmente più di un blog, questo sarà il mio blog "letterario" (che parola grossa, spropositata direi) che da questo momento in poi conterrà solamente racconti ed eventuali commenti agli stessi, con questo post introduttivo come unica eccezione.