lunedì 4 maggio 2009

La cantina

Ho passato l’infanzia a domandarmi che cosa ci fosse nella cantina.
La porta da cui vi si aveva accesso, vecchia e scrostata, era come una cicatrice nella parete immacolata della cucina. No, meglio, come una crosta, di quelle che non dovrebbero essere stuzzicate e inevitabilmente finiscono con l’attrarre l’attenzione.
Quando avevo chiesto a mia madre perché non la aprissimo mai, mi aveva risposto che la chiave era andata perduta. Nella mia ingenuità di bambino non mi ero neppure domandato perché non fosse mai stato chiamato un fabbro per cambiare la serratura, mi ero semplicemente accontentato della risposta. Ma la curiosità era rimasta.
Avevo forse quattordici anni quando, spinto da un altro genere di curiosità, approfittai di un’assenza dei miei genitori per mettermi a frugare nei cassetti privati di mio padre, quelli in cui non avrei mai dovuto ficcare il naso.
Quello che speravo di trovare era magari qualche rivista porno… invece mi lasciai attrarre da uno strano libretto nero che sembrava rilegato in pelle, cacciato in fondo a un cassetto. Lo tirai fuori, dimenticandomi subito dello scopo originario della mia ricerca, e credo si possa immaginare la mia sorpresa quando vidi che all’estremità del nastro rosso che faceva da segnalibro era annodata una chiave, vecchia e annerita dal tempo.
La mia mente tornò subito a quella porta chiusa, dietro cui la mia mente aveva negli anni immaginato si annidasse ogni sorta di mistero, dalla stanza di Barbablù al tesoro dei pirati. Fui tentato di andare subito in cucina per provare la mia nuova scoperta, ma decisi prima di sfogliare il libro a cui era stata legata. Lo aprii proprio dove si trovava la fettuccia, restando sorpreso nello scoprire che era scritto a mano. Parole incomprensibili e strani disegni erano tracciati sulle pagine con un inchiostro che il tempo aveva reso marrone.
Avevo appena iniziato, con scarso successo, a cercare di decifrarne il contenuto, quando sentii l’auto di mio padre entrare nel vialetto. Immediatamente rimisi tutto quanto come l’avevo trovato, e mentre lo facevo già pensavo a quando avrei avuto la prossima possibilità di continuare le mie indagini.
Quella notte feci sogni confusi, sognai libri, chiavi e la porta della cantina, sempre lei. Alla fine, stranamente, sognai di essere seduto sul pavimento, nudo, sopra uno dei simboli che avevo visto nel libro, mentre delle persone attorno a me cantavano una nenia tenendo in mano delle candele nere. Nel sogno piangevo, anche se non ero io a piangere; una cosa che, come spesso accade, in quello stato onirico aveva una sua logica privata e ineccepibile che mai avrei saputo spiegare una volta sveglio.
Passò diverso tempo senza che mi venisse fornita alcuna nuova occasione per restare solo in casa e provare quella famigerata chiave.
Alla fine decisi che me ne sarei creata una da solo e una mattina, dopo essere sceso dall’autobus che prendevo per andare a scuola, attesi il tempo necessario per non essere notato e salii sul primo mezzo che faceva il percorso inverso.
Contavo di trovare la casa vuota. I miei genitori avrebbero dovuto essere al lavoro e avevo scelto di proposito l’unico giorno del mese in cui in casa non avrebbe dovuto esserci nessun altro: né la signora che al mattino si occupava delle pulizie quotidiane, né gli addetti della ditta che badava al giardino e alle pulizie su larga scala, che venivano durante i giorni liberi della prima, ma solo tre volte al mese.
Rimasi attonito quando, sul punto di aprire il cancello del vialetto, scorsi la macchina di mio padre parcheggiata vicino alla casa e vidi la sua schiena sparire oltre la porta d’ingresso. Notai a malapena che procedeva curvo, come se stesse trasportando qualcosa di pesante. In realtà, la cosa che più mi premeva in quel momento era che non mi vedesse, e non certo per le mie intenzioni, bensì per evitare la ramanzina che sicuramente mi sarei preso per aver marinato la scuola ed essermi fatto scoprire.
Stavo ancora riflettendo sul da farsi, nascosto dietro un albero dal lato opposto della strada, quando, neanche dieci minuti dopo, vidi i miei uscire, mettersi in macchina e andare via, con mio grande sollievo.
Attesi ancora un po’, per sicurezza, prima di entrare a mia volta.
Subito mi diressi nella stanza di mio padre, ripescando il libro esattamente da dove l’avevo lasciato l’ultima volta. Ripresi a sfogliarlo, ma le parole che conteneva non avevano acquistato un maggior senso nel frattempo, e rinunciai ben presto a cercare di comprenderle. Dopo tutto, non erano loro a interessarmi veramente.
Tenendo la chiave in mano e il libro per un angolo mi alzai per andare in cucina e qualcosa scivolò fuori dalle pagine, finendo sul pavimento. Fogli ripiegati. Li aprii per curiosità lungo il tragitto, scoprendo che si trattava di esiti di un qualche esame medico che mi riguardava, e stupendomi per lo strano posto in cui erano stati riposti. Per il resto, quello che contenevano non aveva molto più senso per me delle strane parole del libro, e mi suscitava ancor meno interesse.
Così, raggiunsi infine la mia agognata meta. Col cuore in gola e le mani tremanti per l’emozione di risolvere un interrogativo che mi angustiava da così tanto tempo, avvicinai la chiave alla toppa, pensando solo per un istante alla delusione che avrei provato se si fosse rivelata del tutto estranea a quella porta. Ma così non fu.
La chiave ruotò senza il minimo intoppo e la serratura scattò producendo a malapena un paio di scatti sordi e attutiti. Poi la porta si spalancò senza il minimo sforzo da parte mia, facendomi trasalire più che se avesse cigolato sinistramente, come in realtà mi aspettavo che avrebbe fatto. Per un attimo quasi credetti che si fosse aperta da sola, dandomi poi dello stupido quando verificai che si limitava a essere molto ben oliata.
Davanti a me si trovavano delle scale dirette verso il basso, non una grande sorpresa dopo tutto. La luce che entrava in cucina riusciva a illuminare solo i primi due o tre scalini, il resto si perdeva nel buio sottostante.
Cercai a tentoni un interruttore, senza trovarlo.
Non avevo una torcia, né avrei saputo dove procurarmene una sul momento, eppure la mia curiosità vinse la paura e mi spinse a procedere comunque, scendendo un gradino alla volta, con una mano sempre a contatto con la parete, come se ciò bastasse a proteggermi da ben più che un semplice scivolone.
Ero appena uscito dalla zona illuminata, quando venni aggredito dal fetore, quasi che la luce riuscisse a tenerlo lontano assieme all’oscurità. Era un odore pestilenziale che non avevo mai sentito prima, dolciastro e soffocante. Dovetti usare tutta la mia forza di volontà per non piegarmi in due e vomitare. Ma non fu sufficiente a fermarmi.
Trattenendo il fiato, scesi un altro scalino, e improvvisamente vidi venirmi incontro una sagoma pallida che scaturiva dal buio come uno spettro, urlando qualcosa di incomprensibile.
Urlai a mia volta, non so neppure cosa, e mi ritrassi di scatto, terrorizzato, inciampando nello scalino che avevo appena lasciato e finendovi seduto, praticamente senza accorgermene.
Scalciando, camminando su mani e piedi, riuscii a risalire la scala, mentre l’orrida creatura continuava ad avanzare verso di me con movimenti innaturali, emettendo mugolii che alle mie orecchie suonavano come oscenità.
Ero quasi tornato alla porta quando mi fu addosso.
Me la vidi venire incontro come se avesse voluto azzannarmi, e trovai in qualche modo il coraggio di unire i piedi e colpirla con tutta la forza che avevo.
Il mondo parve congelarsi intorno a me in un istante eterno.
Vidi l’essere entrare nel cono di luce, distinguendo ora il suo volto, quello di un ragazzino della mia età o poco più giovane, sporco di polvere e lacrime, imbavagliato con uno straccio che gli impediva di parlare. Le braccia sparivano dietro la schiena, le gambe erano curiosamente unite, come se stesse saltellando più che camminando.
Poi il tempo tornò a scorrere e lo vidi cadere all’indietro nelle tenebre, scomparendo alla vista.
Quasi mi tuffai nel tentativo, inutile, di afferrarlo. Finii in ginocchio sulle scale, talmente sporto in avanti da rischiare di cadere a mia volta, con un braccio teso ad afferrare il nulla.
Non riuscivo a scorgere l’inatteso ospite della mia cantina, e fui sul punto di rialzarmi e scendere per cercarlo, quando il mio sguardo intercettò una strana luce che si spostava in basso, di fronte a me. Mi fu subito chiaro che non si trattava di una torcia elettrica o di una candela, sembrava più una sorta di fosforescenza che strisciava verso il centro della stanza, diventando sempre più visibile.
Poi lo vidi.
Anche se l’immagine rimase impressa nella mia mente in modo indelebile, tormentando i miei sogni per gli anni a venire, non riuscirei mai a descrivere la cosa che vidi arrancare sul pavimento della cantina, né l’orrore puro che mi raggelò il sangue mentre la guardavo avvicinarsi a quello che doveva essere il ragazzo che avevo spinto giù.
Il ricordo di ciò che accadde dopo è invece molto più confuso.
So che in qualche modo riuscii a uscire, chiudere la porta e rimettere a posto la chiave, non ricordo però se accadde prima o dopo che l’abominio raggiungesse la sua preda. Talvolta mi passa davanti agli occhi un’immagine vivida e fin troppo orribile di migliaia di bocche deformi e di zanne che affondano nelle carni di un ragazzo terrorizzato, che ancora non so se considerare un ricordo o un parto della mia fantasia.
So che in un qualche momento di quell’ordalia compresi in un attimo, sorprendendomene io stesso, cosa era accaduto in quella cantina anni prima e cosa vi accadeva ora una volta al mese, quando nessun estraneo era in casa a poter osservare. Cosa i miei genitori avevano fatto perché io vivessi.

Ho passato l’infanzia a domandarmi che cosa ci fosse nella cantina. Ora lo so.

1 commento:

  1. Un horror scritto appositamente per il concorso "Pasqua Noir" del Club degli Scrittori, con un finale vagamente lovecraftiano.
    A detta di alcuni non è molto chiaro cosa accada in concreto, probabilmente perché un passaggio fondamentale passa abbastanza inosservato, non saprei.

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