giovedì 3 dicembre 2009

Quel che resta

Se quello fosse stato un film, la stanza vuota attorno a lei sarebbe stata visibile in un'improbabile penombra nonostante la totale assenza di luce. Gli spettatori non avrebbero mai gradito di restare davanti a uno schermo nero, preferendo l'assenza di logica in una scena che resta visibile anche dopo che le luci sono state spente alla pura e semplice, per quanto normale, assenza di illuminazione.
Ma quello non era un film, era la sua vita. Non c'erano eroi, non c'erano protagonisti invincibili, e non c'era alcuna luce "magica" a rischiarare i contorni di quella soffitta.
L'oscurità la avvolgeva come un'impalpabile coperta; il silenzio, interrotto solo di quando in quando dal lieve trepestio dei topi che passeggiavano sulle assi del soffitto, la accarezzava lieve, consentendole di dimenticare ciò che la circondava e immaginare un mondo diverso, una vita differente.
Si sentiva galleggiare in quella gradita quiete, riuscendo quasi a ignorare il metallo che le avvolgeva e piagava i polsi, ad allontanare dalla sua mente la creatura, il demone che infestava il piano di sotto e i suoi sogni violati.
I suoi occhi erano aperti anche se non c'era nulla da vedere. O forse proprio per quello, perché chiudendoli avrebbe visto, e non voleva più vedere, non voleva più ricordare, non voleva più sapere.

L'apparizione della luce la colse di sorpresa. Non era che un fioco puntino distante, tremulo come la fiamma di una candela, fievole come il residuo di una lampadina appena spenta, ma presto ve ne furono altri ad accompagnarlo. Uno, due, poi tre.
Riuscì a contarne cinque prima che iniziassero a muoversi, avanzando verso il suo letto in una danza lenta e delicata, come sospinte da una brezza che non esisteva.
Quella vista la allontanò ancor di più dai suoi pensieri cupi, lasciandola stupita a domandarsi cosa fossero quei fuochi fatui dinnanzi a lei. Si chiese se potessero essere lucciole – non ne aveva mai viste dopotutto – ma come avrebbero potuto entrare nella soffitta? L'unica finestra era chiusa, oltre a trovarsi alle sue spalle e non là dove le sue inattese compagne si erano manifestate.
Rimase affascinata a guardarle finché non furono così vicine che sarebbe bastato allungare un braccio per sfiorarle, anche se lei non lo avrebbe mai fatto, per paura che il tintinnio delle catene potesse spaventarle e farle fuggire via. Sporse invece la testa, avvicinandosi quanto più poteva, e solo allora le vide davvero per ciò che erano.
Bambine come lei, eppure non come lei. Poco più di ombre trasparenti nelle tenebre, con un solo, fioco bagliore che illuminava i loro diafani corpi dall'interno, sprigionandosi dai loro cuori: era quella la luce che aveva visto. Tutte la guardavano con occhi tristi e al tempo stesso pieni di speranza. Una stringeva al petto una bambola di pezza, quella stessa bambola che ancora giaceva dimenticata in un angolo della soffitta, coperta di polvere e ragnatele.
Lei capì, e non ebbe paura. Non erano loro a spaventarla, erano solo bambine che un tempo erano state terrorizzate come lei.
«Perché siete qui?» domandò con un filo di voce, per timore di essere udita dal mostro al piano di sotto.
«Devi uscire» disse la prima.
«Devi aiutarci a riposare» continuò la seconda.
«Devi battere il mostro» proseguì la terza.
«Noi non possiamo» spiegò la quarta.
«Siamo morte, morte da troppo tempo» concluse la quinta.
«Ma come posso fare?» chiese lei, e sollevò i polsi per far notare le catene che li stringevano. Con sua grande sorpresa non ne avvertì il peso, e le sentì restare sul letto mentre le sue braccia si tendevano libere verso le sue nuove amiche.
«Tu puoi farlo. Ti aiuteremo» le disse ancora una delle bambine, o forse furono tutte assieme a farlo, non avrebbe saputo dirlo. Una di loro avanzò e le porse la bambola che teneva tra le braccia; lei la accolse come un dono prezioso, stringendola a sé, e si alzò in piedi, avviandosi lenta verso la porta.
Lo specchio sulla parete moltiplicava le luci che la circondavano, rendendole un numero indistinto come se potessero riflettersi all'infinito. Per un attimo le parve di essere entrata in un altro mondo, circondata da fatine alate che l'avrebbero condotta a un nuovo regno privo di dolore e tristezza, ma sapeva che avrebbe dovuto meritarselo.
Oltrepassò la porta senza esitare, discese le scale senza fare alcun rumore e attraversò la casa in silenzio, cercando la bestia che vi abitava.
Il demone era lì, seduto su una poltrona sghemba davanti alla televisione accesa. Indossava una canottiera sporca e dei calzoni unti, e non si era accorto di lei.
Avrebbe potuto trovare qualcosa per colpirlo. Avrebbe potuto scappare. Avrebbe potuto fare molte cose, ma solo una era quella che doveva fare, e la fece.
Senza dire nulla avanzò verso di lui. Lo ignorò quando la guardò con sorpresa e le chiese come fosse uscita, lo ignorò quando cercò di afferrarla e riportarla indietro, lo ignorò quando le urlò contro; poi gli porse la bambola.
Lui si ritrasse, tentò di indietreggiare e trovò dietro di sé la poltrona, facendola ribaltare e rovesciandosi all'indietro con essa, poi non si mosse più. Lei si affacciò a guardarlo, fissò i suoi occhi sbarrati e capì che era finita. Le restava una sola cosa da fare.
Lasciò la casa e uscì in giardino. Non sapeva dove fossero state sepolte le altre, non aveva nulla per ricordarle, così lasciò la bambola sulla nuda terra, come una lapide collettiva che presto sarebbe stata portata via. Non era molto, ma sarebbe bastato.
Dai suoi occhi sgorgarono scintillanti lacrime di gioia e sollievo, che rimasero lì sospese a lungo, anche quando il resto di lei si disperse nel vento della sera, abbandonando quel che restava, le sue spoglie mortali, su un letto sporco in una soffitta buia.
L'incubo era finito.