sabato 16 luglio 2011

Out Of Memory

Aprì gli occhi in una strada sconosciuta. Per qualche istante si guardò intorno, disorientato. Poi, d'istinto, abbassò lo sguardo sulle mani che teneva protese in avanti senza comprenderne la ragione. Pallide, affusolate, con una lieve peluria scura sul dorso. Erano le sue mani. Il sangue che le macchiava, però, non sembrava essere il suo.
Non aveva ferite, per quanto gli era possibile notare a una prima ispezione. Qualche ammaccatura al più, nulla che sanguinasse.
E continuava a non sapere dove fosse. La strada era un vicolo cieco, illuminato a stento. In fondo un cumulo di spazzatura abbandonato, più vicine delle schegge di vetro e una sedia a rotelle di foggia antica, con una ruota che girava pigra cigolando appena.
Non si chiedeva come il suo corpo fosse arrivato lì, sarebbe stato inutile. Quello che non capiva era come vi fosse giunta la sua mente.

L'ingresso riservato ai dipendenti era in genere più trafficato di quello aperto al pubblico, che in effetti veniva utilizzato molto di rado. Anche arrivando con oltre un'ora di ritardo, Joe si ritrovò a incrociare parecchi dei suoi colleghi in entrata o in uscita. La prima volta che gli era successo li aveva ingenuamente salutati, ricevendo in cambio sguardi sorpresi ed espressioni imbarazzate. Non aveva impiegato molto a comprendere l'errore, e si era ben guardato dal ripeterlo.
Superata la prima porta, si rivolse all'uomo dietro il banco della sorveglianza con un saluto e un sorriso. Con lui quel genere di problemi non si applicava.
«Buongiorno Joe. Fatto tardi oggi?»
Lui gli mostrò il tesserino, che subito venne registrato dal rilevatore di accessi.
«Ah, visita periodica. Tutto bene?» chiese l'uomo. La domanda era retorica, i risultati erano già apparsi a video sul suo terminale assieme all'autorizzazione all'ingresso.
«Tutto nella norma, grazie.»
«Mi fa piacere. Sei uno dei pochi che è arrivato alla decima.»
Joe fece una smorfia. «Perché? Gli altri che fanno, muoiono prima?»
«Cambiano lavoro.»
Joe si strinse nelle spalle, sorrise e si avviò lungo il corridoio. Non aveva problemi col suo lavoro, perché cambiarlo?
Raggiunse la sua stanza, si tolse la giacca e la appese nell'angolo nascosto, poi passò una mano sul sensore per attivare le webcam e si sedette sul divanetto al centro, attivando i controlli per il riproduttore audio.
Quella parte, starsene lì in mostra e in attesa, era in effetti un po' noiosa, ma in genere impiegava il tempo leggendo o ascoltando musica. Di solito comunque non doveva aspettare a lungo prima che gli venisse segnalata la connessione di un cliente. Era un bel ragazzo, si teneva in forma e aveva un'espressione amichevole. Nonostante le previsioni, le richieste non gli erano mai mancate.

«Vedo che non ha firmato la liberatoria per le attività sessuali.»
Joe guardò l'esaminatore e si strinse nelle spalle. «Preferisco evitare.»
«Certo, è una sua scelta, ma devo avvertirla che questo ridurrà i potenziali clienti, e se non dovesse soddisfare i requisiti minimi...»
«Posso sempre ripensarci se vedo che le cose non vanno bene, giusto?»
«Sì, ma comunque avrà poco tempo per raggiungere la quota mensile.»
La risposta fu un'altra alzata di spalle condita da un sorriso.
«Come vuole. Ha già un backup?»
Joe lo guardò sorpreso «Credevo non servisse.»
«È solo per risparmiare tempo, gliene faremo uno prima che inizi in modo da dover fare solo aggiornamenti sul momento. Ai clienti non piace dover attendere troppo prima dell'upload.»
«Immagino», rispose lui, che in realtà non immaginava ma si sentiva in dovere di dire qualcosa.
«Vedo che non ha esperienze precedenti di condivisione.»
Joe fece un cenno negativo con la testa. Chissà poi perché la chiamavano "condivisione", visto che non si condivideva nulla. "Affitto" forse avrebbe avuto più senso.
«È un problema?» si decise a domandare.
«Dovrà dirmelo lei tra una settimana o due, ammesso ovviamente che abbia avuto dei clienti.» Il ragazzo si trattenne dal fare un plateale segno di scongiuro. «Può essere disorientante, non tutti si sentono a loro agio.»
«Mi hanno detto che non ci si accorge di niente.»
«Infatti, è proprio quello il problema. Comunque sia, benvenuto alla BS signor Lang, ci auguriamo che resterà tra noi a lungo.»
"Ammesso ovviamente che abbia dei clienti", pensò lui, ma evitò di dar voce al commento.

Doveva essere successo qualcosa, qualcosa di grave, ma cosa?
L'unico modo per saperlo era tornare alla BS e far verificare i log. Privacy o non privacy avrebbero dovuto farlo, di fronte a un'anomalia tanto evidente. Il problema era come arrivarci se neanche sapeva dove si trovava.
Si specchiò nel vetro di un portone. Oltre alle mani aveva anche il viso chiazzato di sangue, e così gli abiti, una maglia e un paio di jeans che sembravano suoi ma non ricordava di aver indossato. Girare per strada in quelle condizioni era escluso, lo avrebbero arrestato senza dargli la possibilità di spiegare nulla.
E del resto cosa poteva spiegare? Non aveva idea di cosa fosse accaduto, e lo scarico di responsabilità serviva a poco se non poteva provare di non essere in possesso del suo corpo. Nessuno gli avrebbe creduto se avesse detto di esservi tornato fuori dalla BS. Non ci credeva del tutto neppure lui.
Un lieve ronzio lo distolse dai suoi pensieri. Una ronda stava avvicinandosi all'imbocco del vicolo e lui se ne stava lì in bella vista.
Senza riflettere su quello che stava facendo, corse verso la sedia a rotelle, la rimise in piedi, premette quello che sperava fosse il freno e vi salì sopra, guadagnando il mezzo metro necessario ad aggrapparsi alle sbarre del balcone più vicino alla strada.
Si sollevò per metà, poi l'attrezzo infernale, che a quanto pareva non era stato frenato affatto, gli corse via da sotto lasciandolo sospeso e rischiando di farlo finire in terra.
Imprecò in silenzio, fece uno sforzo e si issò oltre la ringhiera. Non aveva bene idea di come entrare, ma non dovette riflettere a lungo: il vetro del finestrone era rotto, grosse schegge gli scricchiolarono sotto i piedi non appena si calò dall'altro lato.
Si voltò a guardare la strada. C'erano vetri anche lì, ora erano nascosti dal crepuscolo ma ricordava di averli visti. Che qualcuno avesse sfondato proprio quella finestra?
La situazione sembrava diventare più complicata. Se avesse saputo che un giorno sarebbe finito così, non avrebbe mai risposto all'annuncio.

«Che significa 'condivisione corporea'?»
Mara sollevò lo sguardo dal giornale da cui aveva appena declamato a voce alta una delle offerte di lavoro.
«Sai, a volte mi chiedo in che mondo vivi Joe.»
«A volte me lo chiedo anche io, ma questo non risponde alla mia domanda.»
«Significa che la gente paga per scaricare la loro mente nel tuo corpo e usarlo per un po'. Paga bene.»
«Il mio corpo? E che se ne fa?»
«'Tuo' per modo di dire, paga per usare il corpo di qualcun altro. E ci fa un po' di tutto: scalate, immersioni, cose che coi loro corpi non potrebbero fare, insomma. Questa però è una ditta per condivisioni a breve termine, quindi immagino che al massimo andranno a fare scena da qualche parte... o a letto con qualcuno.»
«Cioè dovrei permettere a qualcuno di usare il mio corpo per fare sesso con chi gli pare?»
«Non lo so, magari no, vai e chiedi. O visita il loro sito.»
«Ma... intanto che loro usano il mio corpo io che faccio? Sto lì a guardare?»
«No, tu sei fuori. Quando hanno finito vieni ricaricato. Ma davvero non lo sai?»
Joe scosse la testa.
«Hai presente i backup cerebrali?»
«Sì. Li fanno i ricchi per garantirsi contro i danni al cervello.»
«Be', è la stessa cosa. Ti fanno un backup e poi ti riscrivono il cervello con quello del cliente. Quando lui restituisce il corpo, ti reinstallano il backup. Nel frattempo tu non ci sei e basta, un po' come se dormissi.»
«E perché qualcuno accetta di... condividere il suo corpo.»
«Perché lo pagano.»
«Tutto qui?»
Mara girò il giornale perché potesse vederlo anche lui, puntando il dito verso lo stipendio base dichiarato nell'annuncio.
Joe si piegò in avanti, per un attimo senza capire cosa dovesse leggere. Poi focalizzò lo sguardo sulla cifra.
Tutto quello che disse fu: «Ah!»

L'appartamento era rischiarato da una debole luce. L'interno era piuttosto squallido, scarsamente ammobiliato: una libreria disadorna, una sedia, una piccola scrivania. Su quest'ultima, uno schermo 3D collegato a un'interfaccia neurale di ultima generazione spiccava come una nota stonata in quella sinfonia di frugalità.
Era lo schermo l'unica fonte di illuminazione. Joe lo guardò di sfuggita e la data, in alto a sinistra, lo colpì: 16 Gennaio 2029. Se era corretta, perché lui ricordava come ultima cosa di essere andato a lavoro il 15? Non poteva essere un suo errore, una data come quella ormai era semplice da ricordare.

«Può rivestirsi», lo informò il dottore mentre rimuoveva l'ultimo dei sensori dalla sua fronte.
Joe eseguì in silenzio. La visita era stata lunga ma non troppo sgradevole, solo una serie di esami diagnostici non invasivi. Aveva passato di peggio.
«Quindi è tutto a posto?», chiese dopo aver indossato i suoi abiti.
«Fisicamente è abbastanza in forma, e non ho riscontrato niente che possa far pensare che avrà effetti collaterali dalla riprogrammazione cerebrale ripetuta.»
«Possono essercene?», domandò, senza ottenere risposta.
«Ecco, tenga». Il medico gli stava porgendo un tesserino delle dimensioni di una carta di credito. Lui lo prese con scarsa convinzione.
«Che devo farci?»
«Le servirà a entrare in sede dall'ingresso dipendenti. Contiene i suoi dati personali e l'esito della visita che ha appena fatto. Se salta una visita, il tesserino lo segnala e le verrà impedito di lavorare finché non si rimette in pari.»
«Ogni quanto devo venire a farmi visitare?»
«Finché continua a lavorare alla BS, il 15 Gennaio e il 15 Luglio di ogni anno, senza eccezioni.»
«Anche di domenica e festivi?»
«Anche se gli alieni avessero appena invaso la Terra e la stessero cercando per mangiarla.»
«Perché?»
«Perché lo dico io. E se io non dico che può continuare a lavorare, lei è fuori. Le basta come motivazione?»
«Immagino che mi debba bastare.»

Il ronzio si fece più vicino. La ronda stava entrando nel vicolo, e non era il caso che lui se ne restasse lì a rimuginare.
Sulla moquette consumata si vedevano due tracce scure andare dal balcone fino alla porta della stanza. Joe le seguì senza calpestarle, muovendosi a passi lenti come se temesse che qualcuno potesse essere in attesa oltre la soglia per aggredirlo.
Sbucò in un corridoio in penombra, o per meglio dire in un'oscurità smorzata dalla luce proveniente da una porta socchiusa alla sua sinistra. Dove il pavimento era visibile, le due tracce che aveva seguito si rivelavano come chiazze allungate di un rosso bruno, non dissimili dalle macchie che lui stesso aveva addosso.
Qualunque cosa fosse successa doveva essersi svolta lì, e a questo punto sentiva il bisogno di sapere.
Si avvicinò all'ingresso della stanza e si sporse quel tanto che bastava per vederne l'interno. Era occupato quasi del tutto da un letto, poco più che un materasso e una coperta gettati su una rete alla bell'e meglio. Vi giaceva il corpo di una ragazza con la gola tagliata. La coperta era zuppa di sangue, ma ce n'era una pozza sul pavimento che non poteva essere arrivata lì dal letto.
Era da questa che partivano le due strisce dirette al balcone. Joe le seguì ancora una volta con lo sguardo e solo in quel momento si rese conto che stava lasciando deboli impronte rossastre dietro di sé. Eppure era sicuro di non aver calpestato il sangue.
Sorvolando su questo ennesimo mistero, indietreggiò fuori dalla stanza. Aveva lasciato già fin troppe tracce di sé, e non riteneva opportuno continuare a ficcanasare in giro.
A quanto pareva, qualcuno aveva usato il suo corpo per un omicidio, per quanto la cosa apparisse priva di logica. Come sperava di farla franca?

«Primo giorno?»
Joe sorrise all'uomo dietro il banco. «Si capisce subito?»
«No, è scritto qui», replicò questi indicando lo schermo davanti a sé. «Deve attendere un attimo.»
Fu un attimo per davvero. Poco dopo, fece la sua apparizione una ragazza sulla ventina, struccata e sorridente, che avanzò verso di lui a mano tesa. «Joe Lang?»
«In persona.»
«Sono Shirley, responsabile ambientamento. Vieni, ti mostro dove lavorerai.»
La seguì in quella che sarebbe diventata la sua stanza negli anni a venire, per quanto in realtà venisse usata da altri nei suoi turni di riposo. Era un semplice locale pressoché vuoto, pareti azzurrine che circondavano un divano ed erano circondate da piccole telecamere sferiche.
«Quell'angolo laggiù non viene mai inquadrato», gli spiegò Shirley indicando un punto in direzione dell'entrata. «Puoi poggiarci la tua roba, appenderci il cappotto, quello che vuoi. La porta dall'altro lato è il bagno, se devi andarci usa il sensore vicino all'ingresso per metterti in pausa, non lasciare mai la stanza vuota senza averlo fatto. Sul divano hai comandi per la musica...»
«Ma che devo fare di preciso?», la interruppe lui.
«Niente, stare qui e aspettare. Quando qualcuno ti richiede ti compare un messaggio sullo schermo, lì. A quel punto colleghi i sensori, aggiorni il tuo backup e il cliente fa l'upload.»
«E poi?»
«Poi niente. Quando il cliente ha finito ti riporta qui, attiva il download e appena ha finito il tuo backup viene reinstallato. Non te ne accorgi neppure.»
«E che succede se non mi riporta indietro?»
«Ti recuperiamo noi. Finché sei in condivisione viene tutto registrato nei log. Sono criptati per la privacy ma in caso di necessità accediamo, vediamo dove sei e ti veniamo a prendere. E poi, ovviamente, sappiamo sempre chi ti sta usando e da dove, quindi recuperiamo anche loro.»
«Quindi... tutto quello che faccio da adesso in poi è registrato?»
«No. Quello che fa il tuo corpo da adesso in poi è registrato. Quando sei fuori servizio, o anche quando sei qui in attesa di un cliente, non registriamo nulla. Ma durante la condivisione sì. È per la tua sicurezza. Se qualcuno commettesse un crimine usando il tuo corpo sapremmo subito chi è e cosa ha fatto, non dovresti neanche preoccuparti di giustificarti.»
«E se mi fanno... mi faccio... se subisco dei danni?»
«Ah be', per quello c'è l'assicurazione.»

Era tornato nel corridoio. E ora?
Anche se fosse uscito dalla porta principale era probabile che si sarebbe ritrovato al punto di partenza. Forse la cosa migliore era aspettare lì finché non fosse stato certo che la ronda era andata via, e poi trovare un modo di tornare alla BS e chiarire la situazione.
Forse avrebbe anche funzionato, se in quel momento non avessero suonato alla porta.
Joe si immobilizzò, cercando di non fare nessun rumore. Trattenne perfino il respiro, anche se non era certo che i sensori della polizia fossero così accurati.
Per un istante pensò che se la sarebbe cavata così, forse era solo un vicino che veniva a chiedere una tazza di zucchero, ma poi il campanello suonò ancora, accompagnato da una voce atona «Aprite. Polizia.»
Non per la prima volta da quando si era risvegliato, Joe abbandonò la logica e agì d'istinto. Si rituffò nella stanza dalla quale era entrato, superò con un balzo la ringhiera del balcone e atterrò malamente sulla sedia a rotelle che sembrava quasi volergli dare impiccio di proposito. La spinse via da sé con stizza, senza pensare, e inorridì al contatto della pelle con il tessuto di cui era rivestito il telaio. Era intriso di qualcosa di umido e appiccicoso e, sebbene fosse ormai troppo buio per vedere bene, aveva pochi dubbi su cosa potesse essere.
Si rialzò, zoppicando su una caviglia dolorante. Fece due, forse tre passi, poi una luce lo investì in pieno volto.
«Fermo. Polizia», declamò una voce con l'espressività di un treno merci. Il droide poliziotto fluttuava serafico a meno di mezzo metro da lui, con l'unità antigravitazionale che ronzava sommessamente nel silenzio.

Il pianerottolo era buio, ma in qualche modo riusciva a vedere a sufficienza. Una mano entrò nel suo campo visivo, raggiunse la porta e spinse, non era neppure chiusa.
Nel corridoio la luce era a malapena migliore. Ne arrivava un po' dalla stanza in fondo, e una lama sottile tagliava il buio da una porta semichiusa.
Parve avvicinarsi a quest'ultima, poi cambiare idea. Raggiunse un'altra stanza e la luce si accese senza che avesse fatto nulla, salvo forse pensare.
Era un cucinino con un piccolo piano cottura e qualche pentola appesa a dei ganci sul muro. La sua visione inquadrò un ceppo di coltelli. La mano si protese e ne estrasse uno senza esitazione, poi tornò sui suoi passi, e la luce si spense.
Poco dopo vide aprirsi davanti a sé un'altra camera. Era occupata perlopiù da una scrivania su cui era poggiato uno schermo 3D, ma di fronte a esso c'era una vecchia sedia a rotelle, e lì seduta, se così si poteva dire, una ragazza. Sapeva già che era una ragazza, perché altrimenti avrebbe pensato come prima cosa a una bambola di pezza a grandezza naturale, abbandonata lì perché divenuta inutile.
Le gambe pendevano senza vita, coi piedi storti che si incrociavano. Le braccia erano poggiate sul grembo. La testa ciondolava da un lato, senza nulla che la sostenesse. Gli occhi vitrei fissavano lo schermo, su cui il sito della BS faceva da contorno al video di una stanza vuota. L'immagine venne subito sostituita da uno schermo di stand-by, con l'orario e la data in un angolo e il nulla a fare da padrone nello spazio restante.
Due mani apparvero e afferrarono le maniglie della sedia, spingendola prima in corridoio e poi nella stanza illuminata, accanto al letto intatto che vi si trovava. Una delle due, poi, si ritrasse per un istante, e tornò impugnando il coltello.
Per qualche momento tutto divenne buio. Si udì un rumore indefinibile, un sibilo misto a un gorgoglio, e quando le tenebre scomparvero c'era sangue ovunque.
La scena rimase quasi immutabile a lungo. Il sangue fluiva dalla gola squarciata e la visione tremolava al ritmo dei pochi battiti di cuore residui che continuavano a spingerlo fuori dalle vene.
Le mani tornarono, quasi esitando. Avvolsero il corpo della ragazza e senza sforzo lo adagiarono sul letto. Poi si vide solo il pavimento, attorno alle ruote della sedia, dove il sangue aveva formato una pozza scura. Una mano tirò a sé l'orpello ormai inutile. Sembrava dovesse usare la stessa forza che era stata necessaria a spingerlo fin lì, come se la sua occupante non avesse avuto peso.
La sedia ruotò, o più probabilmente chi la guardava ruotò attorno a lei, per poi essere spinta di nuovo verso lo schermo.
A quel punto, però, la scena parve restringersi, consumarsi lungo i bordi come in un brutto effetto speciale.
«Che succede?», domandò una voce. Nel tono si percepiva stupore, ma anche collera, e delusione.
Il campo si allargò, tornò quasi normale, poi si restrinse ancora.
Con un urlo la sedia venne spinta via, con tale forza da andare oltre il finestrone, romperlo e ribaltarsi contro la ringhiera, precipitando di sotto.
Ora l'immagine pulsava, tornando normale per un attimo per poi restringersi di nuovo, ogni volta più piccola.
La sequenza parve accelerare. Si vide lo schermo, il corridoio, la porta, poi una breve rampa di scale, un portone, e infine un vicolo male illuminato. Scese il buio.

«Ma perché?», domandò Joe. «Se voleva uccidersi perché fare tutto questo?»
«Non poteva uccidersi. Era paralizzata, a stento poteva vivere», gli rispose Shirley. «Ma credo che sperasse di restare nel tuo corpo. Non sapeva che una volta morta lei il collegamento si sarebbe perso e la riprogrammazione si sarebbe cancellata. È per quello che è scattata la segnalazione e ti abbiamo fatto cercare.»
«Per questo non ricordo niente dopo il 15?»
Shirley annuì. «Non ti è stato reinstallato il backup, sei fermo all'ultima reinstallazione. Il tuo cervello si è semplicemente riprogrammato in base a quella. Non si può davvero cancellarlo, sai? Puoi sovrascriverlo ma i dati originali restano lì, solo sepolti.»
«Ma... come...» Non sapeva neppure lui cosa avrebbe voluto chiedere. La ragazza rispose comunque.
«Viveva con un minimo sussidio, assistenza domiciliare saltuaria e uno schermo 3D passato dall'assicurazione. Almeno la sua mente poteva fare qualcosa. Deve aver risparmiato ogni centesimo per permettersi la condivisione, chissà da quanto ci pensava.»
Joe non disse nulla. Aveva passato gli ultimi anni a dare in prestito un corpo a gente troppo annoiata per usare il proprio o troppo pigra per averne cura. In qualche modo aveva rimosso dai suoi pensieri il fatto che potessero esistere persone per cui perfino un corpo funzionante era un lusso.
«Comunque,» riprese Shirley, «l'importante è che sia stato risolto tutto. Non devi far altro che passare dal Dr Marks e farti reinstallare l'ultimo backup, e poi potrai scordarti di tutta questa storia. Sarà come se non fosse mai avvenuta.»
«È proprio necessario?»
Shirley lo guardò incredula. «Non vuoi recuperare i tuoi ricordi mancanti?»
«Non è questo. Penso solo che ci siano cose che meritano più di altre di non essere dimenticate.»

martedì 19 ottobre 2010

Dispersi

La spiaggia che si estendeva infinita dinnanzi a lui avrebbe anche potuto essere un deserto. Il mare, più che un elemento concreto, era un suggerimento di rumore di risacca e odore di salsedine trasportato dal vento.
Lontano, oltre la foresta alle sue spalle, il fumo saliva nero e denso nel cielo altrimenti terso. Era l'unica testimonianza visibile dell'esistenza dell'aereo, fatta eccezione per lui, gli altri e le valigie.
Altri quattro uomini erano lì vicino, nelle sue stesse condizioni. Il sole impietoso aveva già asciugato i loro abiti incrostati di sale e sabbia, dando loro, nel complesso, l'aspetto di antichi relitti rigettati da onde che non desideravano avere nulla a che fare con loro. Forse, come lui, sapevano di essere sopravvissuti al tuffo, alla frenetica nuotata verso la riva e alla camminata sulla sabbia rovente in cerca di altri sopravvissuti solo perché erano troppo doloranti per poter essere morti. Il caldo, quello no, non era un grande indizio.
«Hai trovato qualcosa di utile?», gli domandò uno degli altri, un uomo sulla sessantina ma atletico e asciutto.
Lui tornò ad abbassare lo sguardo sulla valigia che aveva aperto. Non aveva molta importanza di chi fosse, data la situazione.
C'erano dentro dei vestiti, un libro, un orologio e un uovo di pasqua, ancora avvolto nella sua carta laminata bianca e arancio, che il sole aveva ridotto a una massa deforme. Se lo gettò alle spalle. «No. Voi?»
Il ragazzo – un biondino scheletrico dallo sguardo spento che lavorava, a suo dire, in un'officina – sollevò sopra la sua testa qualcosa che a prima vista poteva essere una griglia, ma guardando meglio si rivelò uno stenditoio di quelli che si appendono alle ringhiere dei balconi. Ma chi se ne andava in viaggio con un oggetto del genere?
«Io ho questi», commentò un altro. Aveva un fisico massiccio da palestrato, capelli quasi inesistenti per scelta e mani grandi come pale. Aveva detto di essere un parrucchiere. E aveva in mano un computer, o per meglio dire uno di quei netbook che si usavano di recente, grossi come agende, attaccato con un cavetto a un cellulare quasi altrettanto grande.
«Funzionano?», gli domandò.
«Il pc no. Il cellulare si accende ma non c'è campo.»
Lui levò gli occhi al cielo. Chissà perché la cosa non lo sorprendeva.
«C'era anche questo», aggiunse il coiffeur, sollevando una palla nera irta di punte che gli riempiva la mano.
«E cos'è?», chiese lui, immaginando che l'altro avrebbe estratto un bastone da avvitare nella cosa a mo' di manico per ottenere una perfetta mazza ferrata. Invece estrasse un cordone di alimentazione e ne infilò la spina in una qualche apertura.
«Un adattatore universale», spiegò.
«Bene. Così non dovremo preoccuparci di trovare le prese del tipo giusto.»

Era incredibile che fosse passata solo una settimana. Era incredibile che fossero sopravvissuti nonostante nessuno li avesse soccorsi, a pensarci bene. Eppure erano tutti lì, su una zattera, pronti a prendere il largo nella speranza di raggiungere la terra ferma. Se la sfortuna aveva voluto metterli alla prova, la sua più benevola controparte doveva aver deciso di dare loro una speranza mettendoli assieme.
Il ragazzo smilzo si era rivelato un asso nel costruire attrezzi di fortuna con tutto quanto gli capitava sottomano. Con quelli avevano potuto costruirsi un riparo, ma cosa ancora migliore avevano potuto abbattere alcune tra le tante palme locali che l'uomo anziano, un falegname nientemeno, aveva abilmente tramutato in un'imbarcazione grande abbastanza. Il tutto mentre l'ultimo della compagnia, armato di ago e filo che a quanto pareva si portava sempre dietro in un kit tascabile, aveva cucito assieme gli abiti più disparati per dar loro una vela in piena regola. E lui, da bravo chef, aveva pensato al cibo, industriandosi a cucinare pesce, granchi, perfino piante se sembravano abbastanza commestibili, con l'aiuto del parrucchiere, che come pescatore e raccoglitore di frutta non aveva rivali, almeno non tra loro. L'unica cosa che nessuno aveva voluto toccare era l'uovo di pasqua, che giaceva ancora lì dove era stato gettato, e ormai doveva essere del tutto sciolto dentro la carta. Se lo lasciarono indietro mentre la zattera prendeva il largo.

La vela era un puntino all'orizzonte quando l'uomo uscì, più strisciando che camminando, dalla foresta.
Non sapeva quanto tempo fosse passato dall'incidente. Ricordava a malapena di essere stato risucchiato dall'aereo prima che si schiantasse e di essersi trascinato a stento fuori da una laguna prima di annegarvi. Poi non aveva fatto altro che prendere e riperdere i sensi, cercando di esplorare quanto poteva e mangiando quello che gli capitava, vermi e insetti compresi, pur di sopravvivere.
Quando vide l'origine del luccichio che l'aveva attratto in quella direzione, non seppe se ridere o piangere.
Dopo un po', si decise a raggiungere l'involto di carta metallizzata bianca e arancio, spezzare il nastro che lo teneva stretto e aprirlo. All'interno c'era una poltiglia marroncina con venature biancastre, di certo migliore di tutto ciò che aveva ingurgitato in quegli ultimi giorni. Vi affondò due dita e, con un'espressione di immenso piacere, se la portò alla bocca.
Fu solo dopo averla finita che, per curiosità, aprì l'uovo di plastica da cui aveva leccato via ogni traccia di cioccolato. Guardò dentro, estrasse incredulo l'oggetto che conteneva e scoppiò in una risata folle.
Un bigliettino abbandonato sul fondo del contenitore recitava: "Congratulazioni, hai vinto la nostra promozione speciale, un telefono satellitare a energia solare con un mese di chiamate gratuite già attivo".

lunedì 13 settembre 2010

La Cura

Sarah continuava a rimirarsi nello specchio, controllando il lavoro della truccatrice e della parrucchiera. Mancavano solo pochi secondi alla diretta e voleva essere certa di apparire al meglio quando il suo volto sarebbe stato trasmesso sui televisori dell'intera popolazione. Se qualcuno doveva fare una brutta figura quel giorno, non sarebbe stata certo lei.
Diede un'ultima occhiata al dossier nella sua cartellina. Aveva tutte le domande, tutte le risposte, tutte le controdomande e le informazioni che le servivano.
Purtroppo, di quanto avrebbe detto il suo ospite non sapeva nulla; non c'era stato modo di ottenere niente da lui prima della trasmissione, se non le poche cose che ormai erano di dominio pubblico. Non che avesse importanza, visto quanto era evidente di cosa si trattasse.

«... e adesso ci colleghiamo con il nostro ospite, il professor BiIlder», disse infine, dopo la consueta introduzione della trasmissione.
Sul monitor alle sue spalle comparve il mezzobusto di un uomo stempiato e dai capelli grigi, con sullo sfondo una serie di macchinari di un qualche tipo.
Lei non si voltò a guardarlo; lo schermo davanti a lei, fuori dall'inquadratura, le permetteva di vedere quello che veniva trasmesso agli spettatori, inclusa la sua stessa immagine.
«Buongiorno professore,» esordì «è un peccato non averla qui con noi in studio, considerato che siamo anche piuttosto vicini.»
«Buongiorno signorina Jacobsen. La capisco, anche a me sarebbe piaciuto essere lì, ma come le ho spiegato non mi è possibile abbandonare il mio laboratorio proprio in questo momento, a lavoro ormai quasi ultimato.»
«Infatti, professore, parliamo del suo lavoro...»
«Scusi se la interrompo ma vorrei approfittare della diretta perché tutti possano assistere al momento storico.» Si spostò per mostrare un pannello alle sue spalle, in gran parte occupato da uno schermo e una tastiera non dissimili da quelli di un comune PC.
Sarah si lamentò in silenzio per il fatto di non poter avere un'immagine più ravvicinata. Il sedicente professore non aveva accettato di far entrare nessuno nel suo laboratorio durante la trasmissione, e li aveva costretti ad accontentarsi di una telecamera fissa sistemata in precedenza.
L'uomo premette una sequenza di tasti. Lo schermo sul pannello mostrò una barra di completamento che si esaurì in un tempo sorprendentemente breve, poi una semplice scritta priva di fronzoli: "Operazione completata".
«In questo momento, la diffusione è iniziata.»
L'immagine sul monitor cambiò, mostrando l'esterno dell'edificio in cui si trovava il laboratorio. Almeno lì gli operatori c'erano, e si stavano prodigando per mostrare il più possibile, per quanto in effetti...
«Noi da fuori non vediamo nulla, professore», commentò Sarah, che si era aspettata almeno un po' di scena.
«Perché non c'è nulla da vedere in effetti. La sostanza è del tutto invisibile a occhio nudo, ma non bisognerà attendere a lungo, occorreranno meno di ventiquattr'ore per la diffusione a livello globale.»
«Così poco?» domandò lei tentando di restare impassibile.
«So che può sembrare difficile, ma i miei calcoli sono molto accurati, glielo assicuro. Purtroppo non ci sarebbe abbastanza tempo per spiegarle i fattori che permetteranno questa rapidità.»
«Allora, mentre aspettiamo, parliamo di questa sostanza. Negli ultimi tempi se ne è parlato tantissimo come di una sorta di panacea, che dovrebbe risolvere tutti i mali del mondo, dalla fame, alla guerra, alla povertà. Ma a noi risulta un po' difficile pensare che basti spruzzare qualcosa in aria per mettere fine a tutto questo. Può spiegarci come dovrebbe funzionare, di preciso?»
«Certo, è per questo che ho accettato di essere in trasmissione oggi.»
Sarah si voltò appena sullo sgabello, accavallando con grazia le gambe e preparandosi a smontare le assurdità che quell'uomo avrebbe inevitabilmente iniziato a proferire.
«Vede, in passato mi sono molto interessato alle teorie che vedono il nostro pianeta come un unico, immenso organismo vivente, in cui tutte le creature ricoprono lo stesso ruolo che nel corpo umano appartiene a cellule come i globuli e i linfociti.»
Sarah annuì con aria distratta. Non era la prima volta che sentiva parlare di qualcosa di simile, ma era presto per interrompere.
«Di conseguenza, ogni pianta, ogni animale, ha un ruolo specifico nel funzionamento dell'organismo Gaea, che serve a permetterne la sopravvivenza e a mantenerlo in salute. Tuttavia, come accade per noi, non sempre questo è possibile senza un aiuto esterno.»
«Lei, dunque, mi sta dicendo che vede la guerra e la povertà come una malattia che è possibile curare.»
«No, naturalmente no, sarebbe una visione troppo semplicistica. Pensi ai virus.»
«La guerra sarebbe un virus?» chiese lei, pregustando il momento in cui il suo ospite avrebbe iniziato a farneticare del tutto.
«Non intendevo questo. Dicevo, pensi a come agiscono i virus. Sono elementi che a un certo punto si introducono nell'organismo, e anziché funzionare in accordo con esso agiscono attivamente per modificarlo e sfruttarlo per favorire il proprio sviluppo, danneggiandolo nel processo. Ne modificano le cellule secondo le proprie necessità.»
«Temo di...», si interruppe vedendo qualcuno che le faceva cenni incomprensibili dalla regia. Non avendo idea di cosa volesse, decise di andare avanti «Non sono sicura di seguirla.»
«Quello che sto dicendo, è che la guerra e le altre cose che ha menzionato non sono una malattia ma i sintomi di un'infezione di tipo virale.» Sarah lo stava ascoltando a malapena. Lo schermo davanti a lei ora trasmetteva una visuale del soffitto dello studio. Il cameraman sembrava essere scivolato dal suo sgabello ed essersi aggrappato alla telecamera, senza peraltro riuscire a sostenersi. L'assistente di studio era sul pavimento. Nessuno li stava soccorrendo. «E quella che io ho diffuso è la cura.»

giovedì 8 luglio 2010

Eu

Ho rimosso questo racconto perché utilizzato nella sua versione definitiva per il Preimo premio Letterario di Narrativa Umoristica "Primo Leone", dove si è classificato quarto ottenendo la pubblicazione in antologia. Per inciso, anche il primo classificato era un racconto mio. ^_^

mercoledì 10 marzo 2010

L'ora dei fantasmi

L'orologio del campanile aveva appena finito di battere il dodicesimo rintocco quando Bob si rizzò a sedere di scatto. Sua moglie, che giaceva accanto a lui, si svegliò di soprassalto a quel gesto inconsulto, che aveva causato peraltro un fastidioso cigolio.
«Che ti prende?» gli domandò con la bocca impastata.
«È mezzanotte.»
Lei nemmeno si voltò a guardarlo. «E allora? Succede una volta ogni ventiquattr'ore.»
«Sì ma è halloween.»
«Una volta ogni dodici mesi», reiterò lei.
«È il giorno in cui i morti camminano sulla terra. E questa è l'ora dei fantasmi.»
«E da quando credi a queste cose?» si stupì lei. «In settant'anni passati assieme è la prima volta che ti preoccupi di morti e fantasmi.»
«Ma è il primo halloween che passiamo qui. Questo posto mette i brividi.»
«Ah grazie tante. È quasi Novembre, fa freddo e siamo all'aperto. E poi alla tua età…»
«Lo sai cosa intendo, non quel tipo di brividi. E poi cosa c'entra l'età coi brividi?»
«Coi brividi niente. Dicevo che alla tua età è normale diventare un po' rimbambiti. Rimettiti giù, va'.»
«No, no, devo controllare.»
«Com'è che quando ti dicevo io di alzarti e andare a controllare qualcosa non lo facevi mai?»
«Tu mi svegliavi di continuo per le ragioni più assurde!»
«E invece questa tua fissa di stanotte è una cosa normale…»
«Ma dai, solo per sicurezza. Chi ti dice che non sia vero?»
«Il buon senso?»
«Faccio un controllo veloce. E poi sono già fuori per metà!»
«No, guarda, tu sei proprio fuori del tutto! Comunque fai come ti pare.»
«Vuoi venire con me?»
«Sì, come no… Vai, vai, che ti raggiungo.»
«Ho capito, ci vado da solo.»
«Ecco, bravo.»
Senza prestare ulteriore attenzione a sua moglie, Bob si tirò fuori a fatica dal suo giaciglio. Lei continuò a fare finta di nulla, convinta che gli sarebbe passata e sarebbe tornato molto presto.
Così fu.
Il campanile non aveva neanche battuto il quarto d'ora che già lo sentì arrivare.
«Allora? Hai controllato.»
«Sì, sì.»
«Fatto una bella passeggiata?»
«Be'… bella… non c'era molto da vedere.»
«Ma no?!» rispose lei con evidente ironia «Allora adesso che hai verificato di poter camminare, torna giù e rimettiti a dormire. E chiudi bene il coperchio della bara, che poi prendi freddo.»

venerdì 5 febbraio 2010

Al momento giusto

Dopo aver riempito d'acqua e messo sul fuoco la pentola più grande che aveva a disposizione, si voltò per dare un'ulteriore occhiata al grosso libro.
L'acqua ci avrebbe messo un bel po' per bollire, perciò aveva il tempo di preparare la maionese.
Si sincerò con uno sguardo distratto che la sua portata principale fosse ancora dove l'aveva lasciata: i tre astici, con le chele serrate da fascette nere, erano al loro posto, nella vaschetta poggiata sulla sedia, e si agitavano come se fossero stati consci del destino che li attendeva.
Assicuratasi che non potessero andarsene da nessuna parte, tornò a ignorarli e si dedicò a separare il rosso delle uova dal bianco, con tutta la cura necessaria.
Messi i tuorli in una terrina, aggiunse un cucchiaio d'aceto, sale e pepe, e iniziò a frullarli (sul libro c'era anche un'immagine che illustrava la scena), aggiungendo l'olio un po' alla volta, prima goccia a goccia e poi in un filo sottilissimo, per evitare che la maionese impazzisse.
Dopo aver esaurito l'olio aggiunse il succo di limone, osservando soddisfatta il risultato. Proprio in quel momento, uno sbuffo di vapore le fece capire che l'acqua stava bollendo, proprio al momento giusto.
Tolse il coperchio e si piegò per prendere uno degli astici dalla vaschetta. Lo afferrò per il carapace e lo sollevò al di sopra del pentolone (l'illustrazione sulla pagina accanto mostrava chiaramente come) per buttarvelo dentro…

… un'enorme chela scura afferrò il libro all'improvviso portandolo via, quasi fosse sbucata dal nulla.
«Allora?!» grugnì mamma astice guardando i suoi piccoli. «Quante volte ve lo devo dire di non leggere le storie dell'orrore prima di andare a dormire?»

giovedì 3 dicembre 2009

Quel che resta

Se quello fosse stato un film, la stanza vuota attorno a lei sarebbe stata visibile in un'improbabile penombra nonostante la totale assenza di luce. Gli spettatori non avrebbero mai gradito di restare davanti a uno schermo nero, preferendo l'assenza di logica in una scena che resta visibile anche dopo che le luci sono state spente alla pura e semplice, per quanto normale, assenza di illuminazione.
Ma quello non era un film, era la sua vita. Non c'erano eroi, non c'erano protagonisti invincibili, e non c'era alcuna luce "magica" a rischiarare i contorni di quella soffitta.
L'oscurità la avvolgeva come un'impalpabile coperta; il silenzio, interrotto solo di quando in quando dal lieve trepestio dei topi che passeggiavano sulle assi del soffitto, la accarezzava lieve, consentendole di dimenticare ciò che la circondava e immaginare un mondo diverso, una vita differente.
Si sentiva galleggiare in quella gradita quiete, riuscendo quasi a ignorare il metallo che le avvolgeva e piagava i polsi, ad allontanare dalla sua mente la creatura, il demone che infestava il piano di sotto e i suoi sogni violati.
I suoi occhi erano aperti anche se non c'era nulla da vedere. O forse proprio per quello, perché chiudendoli avrebbe visto, e non voleva più vedere, non voleva più ricordare, non voleva più sapere.

L'apparizione della luce la colse di sorpresa. Non era che un fioco puntino distante, tremulo come la fiamma di una candela, fievole come il residuo di una lampadina appena spenta, ma presto ve ne furono altri ad accompagnarlo. Uno, due, poi tre.
Riuscì a contarne cinque prima che iniziassero a muoversi, avanzando verso il suo letto in una danza lenta e delicata, come sospinte da una brezza che non esisteva.
Quella vista la allontanò ancor di più dai suoi pensieri cupi, lasciandola stupita a domandarsi cosa fossero quei fuochi fatui dinnanzi a lei. Si chiese se potessero essere lucciole – non ne aveva mai viste dopotutto – ma come avrebbero potuto entrare nella soffitta? L'unica finestra era chiusa, oltre a trovarsi alle sue spalle e non là dove le sue inattese compagne si erano manifestate.
Rimase affascinata a guardarle finché non furono così vicine che sarebbe bastato allungare un braccio per sfiorarle, anche se lei non lo avrebbe mai fatto, per paura che il tintinnio delle catene potesse spaventarle e farle fuggire via. Sporse invece la testa, avvicinandosi quanto più poteva, e solo allora le vide davvero per ciò che erano.
Bambine come lei, eppure non come lei. Poco più di ombre trasparenti nelle tenebre, con un solo, fioco bagliore che illuminava i loro diafani corpi dall'interno, sprigionandosi dai loro cuori: era quella la luce che aveva visto. Tutte la guardavano con occhi tristi e al tempo stesso pieni di speranza. Una stringeva al petto una bambola di pezza, quella stessa bambola che ancora giaceva dimenticata in un angolo della soffitta, coperta di polvere e ragnatele.
Lei capì, e non ebbe paura. Non erano loro a spaventarla, erano solo bambine che un tempo erano state terrorizzate come lei.
«Perché siete qui?» domandò con un filo di voce, per timore di essere udita dal mostro al piano di sotto.
«Devi uscire» disse la prima.
«Devi aiutarci a riposare» continuò la seconda.
«Devi battere il mostro» proseguì la terza.
«Noi non possiamo» spiegò la quarta.
«Siamo morte, morte da troppo tempo» concluse la quinta.
«Ma come posso fare?» chiese lei, e sollevò i polsi per far notare le catene che li stringevano. Con sua grande sorpresa non ne avvertì il peso, e le sentì restare sul letto mentre le sue braccia si tendevano libere verso le sue nuove amiche.
«Tu puoi farlo. Ti aiuteremo» le disse ancora una delle bambine, o forse furono tutte assieme a farlo, non avrebbe saputo dirlo. Una di loro avanzò e le porse la bambola che teneva tra le braccia; lei la accolse come un dono prezioso, stringendola a sé, e si alzò in piedi, avviandosi lenta verso la porta.
Lo specchio sulla parete moltiplicava le luci che la circondavano, rendendole un numero indistinto come se potessero riflettersi all'infinito. Per un attimo le parve di essere entrata in un altro mondo, circondata da fatine alate che l'avrebbero condotta a un nuovo regno privo di dolore e tristezza, ma sapeva che avrebbe dovuto meritarselo.
Oltrepassò la porta senza esitare, discese le scale senza fare alcun rumore e attraversò la casa in silenzio, cercando la bestia che vi abitava.
Il demone era lì, seduto su una poltrona sghemba davanti alla televisione accesa. Indossava una canottiera sporca e dei calzoni unti, e non si era accorto di lei.
Avrebbe potuto trovare qualcosa per colpirlo. Avrebbe potuto scappare. Avrebbe potuto fare molte cose, ma solo una era quella che doveva fare, e la fece.
Senza dire nulla avanzò verso di lui. Lo ignorò quando la guardò con sorpresa e le chiese come fosse uscita, lo ignorò quando cercò di afferrarla e riportarla indietro, lo ignorò quando le urlò contro; poi gli porse la bambola.
Lui si ritrasse, tentò di indietreggiare e trovò dietro di sé la poltrona, facendola ribaltare e rovesciandosi all'indietro con essa, poi non si mosse più. Lei si affacciò a guardarlo, fissò i suoi occhi sbarrati e capì che era finita. Le restava una sola cosa da fare.
Lasciò la casa e uscì in giardino. Non sapeva dove fossero state sepolte le altre, non aveva nulla per ricordarle, così lasciò la bambola sulla nuda terra, come una lapide collettiva che presto sarebbe stata portata via. Non era molto, ma sarebbe bastato.
Dai suoi occhi sgorgarono scintillanti lacrime di gioia e sollievo, che rimasero lì sospese a lungo, anche quando il resto di lei si disperse nel vento della sera, abbandonando quel che restava, le sue spoglie mortali, su un letto sporco in una soffitta buia.
L'incubo era finito.