mercoledì 13 maggio 2009

Il Centro dell'Universo

Era la vigilia del grande giorno e Sarah, sola in un letto troppo grande per lei, non riusciva a chiudere occhio.
Anni di studi sulla tecnologia di curvatura spaziale, di calcolo di coefficienti di espansione e vettori, avevano infine portato l’umanità alla soglia di quell’ultimo traguardo e lei, proprio lei, Sarah Myers, era stata scelta per comandare l’equipaggio della prima nave che si sarebbe recata al centro esatto dell’universo.
Con gli occhi chiusi, inseguendo un sonno che continuava a sfuggirle, rivedeva proiettate nella sua mente le tappe che avevano condotto il mondo a quel punto, fin dall’invio delle prime sonde, che si erano rivelate incapaci di trasmettere informazioni una volta giunte a destinazione, per arrivare alla decisione di inviare un equipaggio umano che potesse testimoniare ciò che gli apparecchi vedevano ma tenevano gelosamente per loro stessi.
Nonostante le nuove tecnologie, il viaggio sarebbe durato anni, durante i quali lei e il suo equipaggio avrebbero dovuto essere posti in uno stato di animazione sospesa. Era un piccolo sacrificio per il coronamento del sogno di una vita, e le sarebbe piaciuto che anche Carl, suo marito, l’avesse vista a quel modo. Certo, comprendeva anche lei che avrebbe perso gli anni dell’infanzia dei loro figli, che si sarebbero rivisti dopo chissà quanto senza che lei fosse neppure invecchiata, se non dei pochi giorni di attività dopo l’arrivo a destinazione, ma tutto questo impallidiva di fronte all’eccezionale scoperta di cui sarebbe stata artefice e testimone.
Carl non capiva, e come avrebbe potuto? Era un uomo con i piedi ben saldi a terra, non come lei che aveva sempre vissuto nello spazio con la mente anche quando non poteva recarvisi con il corpo. Così aveva preso i bambini ed era andato via una settimana prima, affermando che se proprio dovevano fare a meno di lei avrebbero fatto meglio ad abituarvisi fin da subito. Lei li aveva lasciati andare. A modo suo, lui aveva ragione, e una settimana in più, anche se con la piena coscienza di sé e non persa nell’oblio indotto da un macchinario, che differenza avrebbe mai potuto fare?

Il mattino giunse dopo un alternarsi di sonno e veglia tale da creare più confusione di quanto riposo portasse, ma lei era semplicemente troppo eccitata per sentire la stanchezza quando salì lungo la scaletta che l’avrebbe portata all’interno della nave spaziale. Pur sapendo che ciò che la aspettava al momento era soltanto una lunga serie di controlli seguita da un ancor più lungo periodo in cui sarebbe stata del tutto estranea al mondo, visse ogni istante con ansia estrema ed estrema voglia di passare oltre, di avviarsi alla fase successiva. Quando la porta della capsula di ibernazione si chiuse sopra di lei, dall’oblò trasparente si poté vedere l’ampio sorriso che le si era disegnato sul volto.

Riaprì gli occhi.
Dal suo punto di vista fu come se avesse solo sbattuto le ciglia e, in quell’istante, il mondo attorno a lei fosse cambiato. I tecnici che circondavano la sua capsula erano scomparsi, i macchinari al contrario pulsavano di vita, e i monitor segnalavano l’approssimarsi della fine del viaggio.
Uscì dalla capsula con addosso le medesime sensazioni che stava provando quando vi era entrata, eccitazione inclusa. Il suo primo compito era quello di verificare che tutto l’equipaggio fosse stato svegliato e che tutti i macchinari fossero in funzione, ma si ritrovò a dover affrontare un’imprevista sorpresa: le altre capsule erano ancora sigillate... e vuote. Fu la prima cosa a stupirla più della seconda: perché gli altri avrebbero dovuto richiudere i sigilli dopo aver lasciato i loro posti? Che senso aveva? La loro assenza, in cambio, era un problema secondario: la nave non era enorme, sarebbe bastato cercarli. Era probabile che fossero andati a mangiare qualcosa, o stessero controllando le apparecchiature delle altre sezioni.
Stava per inviare un messaggio audio quando gli strumenti segnalarono qualcosa di indefinito e poi più nulla del tutto, spegnendosi di colpo e lasciandola al buio. Per un singolo istante il panico la colse, subito però venne sostituito dall’addestramento e fu pronta a reagire. Tentò di accendere la torcia sul polso della sua tuta e, quando non ci riuscì, avanzò a tentoni per raggiungere il quadro comandi e provare a riattivare tutto nonostante l’oscurità.
Fece un cauto passo dopo l’altro, le mani tese in avanti, inclinate in basso verso dove avrebbe dovuto trovarsi la console. Continuò ad avanzare, e avanzare, e avanzare, senza toccare nulla lungo la sua strada, anche quando fu ormai chiaro che aveva camminato ben più a lungo di quanto avrebbe dovuto esserle possibile fare nello spazio limitato della cabina. Ruotò lentamente le braccia attorno a sé in cerca di qualcosa di solido che non trovò. Era come se la cabina, per non dire l’intera nave, fosse scomparsa, e lei si trovasse a fluttuare inerme in uno spazio oscuro e privo di stelle... qualcosa che non poteva essere vero: non indossava una tuta per l’attività extraveicolare, e sarebbe morta sul colpo al di fuori dello scafo.
La luce la colse alla sprovvista, comparendo nel suo campo visivo non come un lampo o l’accensione di una lampadina ma, non avrebbe saputo spiegarlo in altro modo, come se fosse sempre stata lì: un puntino bianco e luminoso che sembrava chiamarla a sé. Non avrebbe saputo dire se avesse davvero iniziato ad avanzare verso la luce, se fosse stata la luce a muoversi verso di lei o se questa avesse piuttosto iniziato a espandersi fino a diventare un globo di dimensioni tali da poterla accogliere al suo interno, se solo avesse compiuto quell’unico passo che ancora la separava da esso.
Affascinata da quell’insolito e inatteso spettacolo, tese una mano come ad accarezzare la sfera lattiginosa, stupendosi di come, per quanto intenso fosse il bagliore che emanava, le fosse possibile fissarla senza che i suoi occhi venissero feriti, e come l’oscurità attorno a essa non ne sembrasse influenzata. Non c’era alcuna zona d’ombra, solo un netto e distinto confine tra bianco e nero.
Stava per avanzare ancora, ansiosa di scoprire cosa si celasse oltre quella che stava iniziando a considerare una soglia, quando sentì una voce chiamare il suo nome da un punto indistinto: “Sarah”.
Si voltò, cercando l’origine di quel suono. Come ovvio non riuscì a vedere nulla. Il richiamo si ripeté, ma ora pareva provenire da un punto diverso: “Sarah”.
Il suo pensiero corse al resto del suo equipaggio, forse sperduto anch’esso in quell’oscurità, forse in grado di vedere lei stagliarsi contro la luce. Fu sul punto di rispondere “Sono qui”, ma la sua attenzione venne nuovamente catturata dal globo. Riprese ad avanzare.
“Sarah!” il tono questa volta era più concitato, quasi d’urgenza. Restò in sospeso per un attimo, ma doveva sapere, non poteva fermarsi in quel momento.
“Sarah!”
Fece l’ultimo passo. Precipitò nella luce e poi di nuovo nel buio, un buio meno indistinto, più familiare.
“Sarah” Questa volta la voce proveniva da più vicino, avrebbe potuto allungare la mano e toccarla, se fosse stata qualcosa di solido. Un’immagine confusa prese a formarsi lentamente davanti ai suoi occhi, come in una graduale messa a fuoco. Riconobbe un volto, il volto di Carl, chino su di lei, sorridente. I bambini erano accanto a lui e la guardavano come fosse stata la donna più bella del mondo. Probabilmente per loro lo era.
“Sarah? Buongiorno! Sai che non riuscivo a svegliarti? Mi hai fatto preoccupare.”

2 commenti:

  1. Racconto scritto per un contest del Writer's Dream Forum (il titolo è essenzialmente il tema della gara).
    È un racconto insolito per il sottoscritto, innanzitutto perché è uno dei pochissimi racconti di fantascienza che io abbia mai prodotto, ma soprattutto perché credo sia ad oggi l'unico racconto a finale "aperto" che io abbia mai scritto, esistendo almeno tre possibili interpretazioni di cosa sia realmente accaduto.

    RispondiElimina
  2. E sono lieto di aggiungere che il racconto ha vinto il contest, non me l'aspettavo! ^__^;

    RispondiElimina