giovedì 26 febbraio 2009

Punti di vista

James Seward lasciò il mondo dei vivi all'età di settantaquattro anni, senza traumi né dolore. Aveva vissuto una vita tranquilla, e tranquillo fu anche il momento della sua dipartita; lasciò il suo corpo in piena notte, mentre dormiva, senza neppure rendersene conto.
Fino alla mattina credette di essersi risvegliato e di non riuscire a riprendere sonno, ma non si sentiva stanco né assonnato, non aveva gli occhi pesanti come accade di solito a chi fatica ad addormentarsi, e non era neppure scomodo nella posizione in cui si trovava. Non avrebbe potuto cambiarla neppure volendo, ma visto che non sentiva il bisogno di farlo non lo avrebbe mai scoperto.
Fu solo quando sua figlia Angelica si recò da lui per dargli il buongiorno e avvisarlo che la colazione era pronta che si rese conto che qualcosa non andava. Per quanto lui le parlasse e le rispondesse, dopo un po’ anche ad alta voce, visto che pareva non riuscire a sentirlo, lei non se ne accorgeva affatto e continuava a chiamarlo e a scuoterlo leggermente per le spalle. A un certo punto notò che le venivano le lacrime agli occhi, e solo allora vide anche un'altra cosa che, fino a quel momento, non aveva scorto, o forse aveva preferito ignorare: la scena a cui stava assistendo la vedeva dall'alto, osservando il tutto come in uno strano filmato tridimensionale, e riusciva persino a vedere sé stesso sdraiato nel suo letto, inerte. Fu allora che comprese di essere morto, ma la cosa non lo intristì più di tanto. Prima o poi, si disse, doveva pur capitare e, del resto, non si sentiva affatto male, anzi… non era mai stato tanto bene in tutta la sua vita.

Partecipò al suo funerale più che altro per curiosità. Pensava che una cosa del genere non gli sarebbe mai capitata, e di sicuro non si sarebbe ripetuta. Osservò tutti i parenti e gli amici venuti a rendergli omaggio, bofonchiando alla vista di persone che non si erano mai degnate di fargli visita quando avrebbe potuto gradirlo e si presentavano ora che non gliene importava più nulla. Vide gente che chiacchierava allegramente, cosa che gli parve poco rispettosa, altra di cui a malapena ricordava nomi e volti, e tra loro qualcuno che piangeva a dirotto. Si chiese il motivo di tanta tristezza: in fondo, lui era l'unico ad aver perso qualcosa, e se non dispiaceva a lui che motivo avevano gli altri di disperarsi a tal punto? D'altra parte, comprese, questa era una verità che aveva potuto apprendere solo dopo aver oltrepassato la soglia della mortalità, perciò non poteva pretendere che altri condividessero le sue stesse sensazioni; anche lui si sarebbe comportato allo stesso modo, quand'era vivo, se uno dei suoi parenti più cari fosse trapassato. L'aver abbandonato le sue spoglie mortali aveva mutato impercettibilmente, ma a fondo, il suo modo di vedere il mondo, cancellato i lati negativi comuni a tutti gli esseri umani, così ora non avrebbe mai potuto piangere alla morte di qualcuno, poiché comprendeva che per lui era solo l'inizio di una vita diversa, forse migliore.

Seguì il corteo funebre fino al cimitero, ma non volle assistere al seppellimento della bara, più che altro perché aveva perso interesse. Sentì qualcosa di indefinibile che lo attraeva verso un punto lontano ma vicinissimo al luogo in cui si trovava, un concetto che in quel momento comprendeva pienamente ma che non sarebbe mai stato in grado di spiegare. Si affrettò a seguire il suo nuovo istinto e giunse così dall'altra parte.
Si ritrovò ben presto in un mondo totalmente diverso da quanto aveva mai potuto vedere o anche solo immaginare prima di allora. Era un luogo del tutto privo di materialità, dove tutto ciò che esisteva era pura energia, di un tipo che alcuni avrebbero potuto chiamare spirito ma che, comunque, non aveva uguale nel mondo dei viventi. Attorno a lui fluttuavano lievemente migliaia di aloni di luce chiara, dei colori più disparati che, come imparò poi, altro non erano che anime. Con la sua nuova sensibilità poteva guardare in ogni direzione, e ovunque ne scorgeva una moltitudine. Si accorse che, sebbene fossero apparentemente tutti uguali, poteva distinguerli l'uno dall'altro non meno di quanto avrebbe potuto fare con i suoi tre figli fino a poco tempo prima. In un secondo tempo si rese conto che anche lui, ormai, era identico a ognuno di quegli aloni, eppure profondamente diverso. Non era più James Seward, non interamente almeno, ma rimaneva un'entità unica e distinta dalle altre, come ognuna delle anime che lo attorniavano.

Di tanto in tanto riattraversava il confine per andare a osservare i suoi parenti rimasti ancora in vita, ma non lo faceva spesso. Sapeva di alcuni che avevano voluto rimanere da quella parte anche dopo il trapasso, ma lui si trovava benissimo nel mondo delle anime, e se si allontanava era solo per controllare che i suoi cari stessero bene e non avessero bisogno di nulla. Per il resto, restava il più possibile in quel nuovo mondo senza tempo, che imparava a conoscere sempre meglio.
Aveva appreso quasi subito che il modo di comunicare tra anime era molto diverso rispetto a quello utilizzato dai mortali, per quanto i risultati fossero più o meno gli stessi. Il passaggio delle informazioni avveniva sotto forma di trasmissione emotiva, mentre lo stato emozionale di ogni anima era segnalato da un cambiamento del suo colore, che mutava a ogni anche minima variazione dell'umore. Ben presto fu in grado di distinguere e comprendere ogni tonalità cromatica di quegli aloni luminosi, e capì che nessuno di loro avrebbe mai potuto mentire, poiché il suo colore lo avrebbe irrimediabilmente rivelato.

Tali e tante erano le cose da apprendere nella sua nuova esistenza che ormai nessuna, credeva, sarebbe stata più in grado di stupirlo, poiché si aspettava sempre qualche novità, o qualche dettaglio che non aveva immaginato in precedenza. Eppure, gli capitò dopo un tempo imprecisato di assistere a qualcosa che risvegliò in lui il sentimento di stupore che credeva ormai di aver perduto per sempre.
Era intento a godersi ogni istante della sua nuova condizione, quando si accorse di una moltitudine di anime che si radunavano in corrispondenza di uno degli innumerevoli passaggi nel confine col mondo mortale. Non aveva mai visto tante anime insieme, neppure nel giorno in cui lo avevano accolto tra loro, e molte tra esse avevano i toni cupi del dispiacere e della tristezza. Era davvero qualcosa su cui indagare, così si avvicinò fluttuando al gruppo e si avvide che dinnanzi a tutti vi era un alone leggermente discosto dagli altri, apparentemente in attesa di poter valicare il confine. Le anime più vicine a questi rifulgevano dei colori più tristi che gli fosse mai capitato di vedere, e la cosa gli parve stranissima, abituato com'era a un mondo in cui nessuno era meno che tranquillo e felice.
Raggiunse uno dei presenti e, nel loro linguaggio senza parole, gli domandò cosa stesse mai accadendo. Questi rimase inerte per un attimo, mentre l'anima più lontana scompariva oltre le nebbie che davano accesso all'altro mondo. Poi, mentre il suo colore si caricava di un tono leggermente più spento, a indicare il dolore che l'evento gli aveva arrecato, rispose senza un suono "Ahimè, poverino. È appena nato."

venerdì 20 febbraio 2009

Specchio Specchio

La regina era infelice.
Aveva sotto di sé un piccolo regno, non particolarmente ricco, che non le consentiva neppure di ricavare molto con le tasse.
Aveva moltissimi amanti, ma nessuno che l’amasse veramente o la rendesse felice al di fuori del letto, ed era sicura che tutti loro stessero con lei solo perché era bella e, soprattutto, era la regina.
Tutto questo non le bastava più, se mai l’aveva fatto.
Per questo aveva impiegato anni a studiare le arti arcane al solo scopo di trovare le risposte di cui aveva bisogno, e alla fine aveva impiegato tutte le sue risorse per creare una pozione che l’avrebbe aiutata a risolvere il suo problema.
Brillante come argento, il liquido era ora all’interno di una boccetta, e quando lei lo versò sulla superficie dell’elaborato specchio che teneva da sempre nella sua camera, questa parve assimilarlo, come fosse stata acqua versata in un laghetto.
Vi fu qualche increspatura, quindi la lastra di vetro tornò tranquilla e immota come sempre.
La regina rimise lo specchio contro la parete, osservò per un po’ il suo riflesso, quasi temesse di mettere alla prova il suo risultato, e infine si decise.
“Specchio, specchio, mostrami dove potrò trovare l’amore.” ordinò.
Non accadde nulla, lo specchio continuava a mostrare il suo riflesso.
Innervosita, la regina decise di provare ancora.
“Specchio, specchio, mostrami dove potrò trovare la felicità.”
Ancora una volta, nello specchio nulla cambiò.
Ormai decisamente alterata, la regina si dispose a fare un ultimo tentativo.
“Specchio, specchio, mostrami dove potrò trovare la ricchezza.”
Quando, nuovamente, nello specchio non vide altro che il suo volto, la regina cedette alla collera, afferrò un pesante soprammobile e fece per scagliarlo contro il vetro, bloccandosi all’ultimo istante quando si rese conto che il suo riflesso era invece rimasto fermo, e stava iniziando a parlare.
“È questa, dunque, la tua riconoscenza?” domandò la regina dall’altra parte.
“Riconoscenza? - quasi ringhiò, ben poco regalmente, quella vera - E per cosa? Non hai risposto a una sola delle mie richieste!”
“Non è così. Mi hai chiesto dove trovare l’amore, e te l’ho mostrato. Mi hai chiesto dove trovare la felicità, e te l’ho mostrato. Mi hai…”
La regina lo interruppe.
“Non mi hai mostrato nient’altro che il mio riflesso!”
“È così, infatti. Perché quello che cerchi è solo dentro di te che potrai trovarlo.”
L’espressione della regina cambiò, mentre la collera scompariva per lasciare posto dapprima a stupore, poi a una vaga confusione quando si rese conto di un’incongruenza.
“Capisco l’amore e la felicità - disse ancora - ma come potrei mai trovare la ricchezza dentro di me?”
“Quella, in effetti, no. - rispose lo specchio - … ma se solo tu ti decidessi a farti pagare invece di darla via gratis…”

martedì 17 febbraio 2009

Nocturnal

She rose and fell,
as darkness falls
She ran, she hid,
and heard those calls
I want to play
I want to play
with you

She shrieked, and cried
to no avail
She wished, she dreamed
herself away
I want to play
I want to play
with you

She woke and looked,
then turned her head
She breathed, she sighed.
He came and said
I want to play
I want to play
with you

domenica 15 febbraio 2009

Lo Straniero

Principessa di un regno ormai morto, stava in piedi sul balcone del palazzo, la testa rivolta in alto a osservare le stelle che punteggiavano il cielo notturno.
Il bianco dei suoi lunghi abiti e il biondo dei lisci capelli, che quasi toccavano il pavimento, contrastavano l’oscurità della notte e il nero della sua anima.
Il paese su cui un tempo aveva regnato era insonne quella notte. Nessuno di coloro che l’avevano amata e temuta stava dormendo il sonno del giusto.
Li vedeva, in lontananza, marciare verso il castello, impugnando torce e forconi, come se armi così rozze potessero veramente rappresentare una minaccia per la loro regina. A lungo aveva aspettato che un simile giorno giungesse, ed era ormai convinta che non sarebbe più accaduto.
Il terrore, le vittime, i sacrifici, niente di tutto ciò era riuscito a smuoverli prima, a spingerli a rivoltarsi al suo giogo. Perché ora, quindi? Cosa era cambiato? Cosa li animava, nella loro folle e suicida ribellione?
“Ti amano.”
La voce che proveniva dall’interno della stanza, rompendo il silenzio, la colse del tutto alla sprovvista. Qualcuno era riuscito ad arrivare fin lì senza che lei se ne accorgesse, era semplicemente inaudito, impossibile!
Si voltò con la fluidità di una pantera, gli occhi scintillanti fissarono lo sconosciuto dalle vesti nere come la notte che stava lì a osservarla, un enigmatico sorriso stampato sul volto.
Le parve di cogliere nei suoi occhi un riflesso del suo stesso sguardo, quello sguardo che poteva immobilizzare una vittima, incantarla, farle amare ogni singolo istante della propria morte.
“Chi sei?” gli chiese con un sibilo ferino.
“Non puoi conoscere il mio nome. Non ancora.” rispose lui suadente, senza mai smettere di fissarla o sorriderle.
Lei scivolò nella stanza senza un suono, in un batter di ciglia, talmente veloce che nessun occhio mortale avrebbe potuto vederla muoversi.
Si ritrovò con le braccia sollevate a pochi millimetri dal volto di lui, le unghie incurvate e mutate in artigli, i polsi saldamente serrati in due mani possenti che le impedivano di sferrare il suo attacco letale.
La pelle dell’uomo era calda, il contatto con la sua, fredda come ghiaccio, come la morte stessa, sembrava quasi bruciare, e al tempo stesso era piacevole, il ricordo di un’umanità sopita ma mai distrutta.
Lui la costrinse ad abbassare le braccia. I loro occhi si incrociarono, così simili e così diversi allo stesso tempo.
“Sei venuto per uccidermi?” gli chiese. Il suo tono era quasi rassegnato. Forse era giunto il suo momento, aveva ingannato la morte tanto a lungo, non era forse tempo di abbandonarsi al suo freddo abbraccio, come avevano dovuto fare tutti coloro che l’avevano aiutata, non per scelta, a evitarlo?
“Sono venuto a guardare il cielo assieme a te.”
La fece ruotare, lentamente, e assieme a lei si incamminò verso il balcone. Lei non oppose resistenza. Qualcosa in quell’uomo, se di questo si trattava, sembrava in grado di superare ogni sua difesa.
Quando furono usciti, lui le lasciò andare i polsi e, standole alle spalle, la cinse in un abbraccio che era al tempo stesso tenero e tanto forte da impedirle di liberarsi.
“Guarda – le disse – è l’alba.”
Lei cercò di sfuggire alla sua presa, terrorizzata, senza riuscirvi. Poté soltanto voltare il capo, come se il solo distogliere gli occhi potesse servire a salvarla dal destino che la attendeva quando la luce del sole avrebbe raggiunto la sua pelle candida.
Si ritrovò a sfiorare con le labbra la gola di lui. Sentì la familiare pulsazione del sangue nelle vene, il sapore dolce e salato della sua pelle.
“Fallo. – le disse lui – È per questo che sono qui.”
Lei non capì, ma non era di capire che aveva bisogno. Quasi sentiva il calore dell’astro che l’avrebbe distrutta crescere nel cielo sopra di lei, e fece tutto ciò che sapeva e poteva fare. Aprì la bocca e baciò il suo collo, poi affondò gli aguzzi canini nella sua pelle e ne trasse il denso liquido che per lei, più che per ogni altro, era vita.
Le scese nella gola come fuoco liquido, una sensazione che non aveva mai provato. Una mano dietro la nuca le impedì di allontanarsi, di smettere di suggere quel dolce veleno. Ormai scorreva dentro di lei senza alcuno sforzo da parte sua, le incendiava la gola e la pelle, più di quanto il sole avrebbe potuto fare. Ma non stava morendo, no.
Stava tornando alla vita.
Si perse in quella sensazione di dolore e piacere, finché il battito frenetico del cuore nel suo petto – quel cuore fermo ormai da decenni – la fece trasalire.
Lui le carezzò le guance, sollevandole il volto verso la sfera infuocata che ora dominava il cielo. La luce le ferì gli occhi, ma fu solo un istante, e lacrime che ormai aveva dimenticato le rigarono il volto.
Fuori dalle mura del castello, i contadini erano testimoni di un evento senza precedenti, che riuscivano a comprendere solo col cuore e non con la mente.
“Salutate la vostra regina, e la sua nuova vita.” li esortò l’uomo. Un grido di gioia si levò dalla folla.
“Come possono…? – farfugliò lei – Dopo tutto quello che ho fatto…”
“Te l’ho già detto. Ti amano. Non è qualcosa su cui io possa sbagliare.”
“Ma tu…?”
“Shhh!” la zittì lui, portandosi un dito alle labbra. Poi, con quelle stesse labbra, la baciò.

giovedì 12 febbraio 2009

Cappuccetto Rosso (reprise)

C’era una volta un giovane lupo. Era gentile, carino ed educato, ma come tutti i cuccioli era irruente, e talvolta sprovveduto.
Un giorno, il lupo chiese a sua madre se poteva andare a giocare nel bosco.
“Va’ pure. - gli rispose mamma lupa - Ma mi raccomando, resta nel folto degli alberi e sta’ lontano dal sentiero.”
“Certo mamma, farò come dici tu.” disse lui, sebbene in realtà a malapena l’avesse udita.
Fu così che giocando, correndo e ruzzolando spensierato, il lupo si ritrovò sul sentiero che attraversava il bosco, e lì incontrò una ragazza che indossava una mantellina rossa, col cappuccio tirato sopra la testa, e portava un paniere di vimini coperto da uno strofinaccio.
Mai prima di allora aveva incontrato un essere umano in vita sua, così non si spaventò e la salutò cordialmente: “Buongiorno.”
“Buongiorno a te lupo.” rispose lei “Cosa ci fai qui nel bosco?”
“Niente, stavo solo giocando. E tu?” le chiese di rimando
“Sto andando alla casa della nonna, dall’altra parte del bosco. Vive lì tutta sola e ora si è ammalata, perciò sto andando a trovarla.”
“È gentile da parte tua. - disse contento il lupo - E che cosa le porti in quel paniere?”
“Ho marmellata, focacce, biscotti e pane appena sfornato, ma non sono per lei, è il mio pranzo. A lei sto portando questo.” disse la ragazzina togliendo dal paniere un lungo e affilato coltello.
“E perché mai?” si stupì il giovane lupo
“Perché con questo le taglierò la gola, poi le ruberò i soldi e dirò di averla trovata morta. Lo sanno tutti che vivere ai margini della foresta è pericoloso, nessuno si stupirà.”
Il lupo, a sentire quelle parole, rabbrividì. “E… e perché me lo dici?” domandò con un filo di voce.
“Perché prima di uccidere lei ucciderò te, per farmi una bella pelliccia di lupo.” rispose la ragazzina avventandosi contro di lui.
Il povero lupo riuscì a sfuggirle per un soffio, e si mise a correre a perdifiato nel folto del bosco, fin quando non si fermò ansimante, poggiando le spalle a una robusta quercia, nella speranza di averla seminata.
Mentre riprendeva fiato, pensò all’orribile sorte che attendeva la povera vecchietta che viveva oltre il bosco.
“Devo avvisarla.” decise, e così si rimise in marcia, più veloce che poteva, verso l’abitazione della nonna.
Giunse infine in vista della casa e subito bussò alla porta.
“Chi è?” chiese una voce flebile dall’interno
“Buona nonnina, sono un lupo. Sono venuto a trovarla perché so che è malata, e per dirle una cosa importante. La prego, mi faccia entrare.”
“Caro lupo, sono troppo debole. - rispose ancora la vocina - La porta è aperta, entra pure.”
Il lupo spinse la porta e si fece strada nella casa, fino alla stanza da letto della nonna. Lì la vide raggomitolata sotto le coperte. Solo la testa, coperta da una cuffietta, e le dita di una mano sporgevano fuori dalle coltri.
“Nonnina…” disse, ma lei lo interruppe.
“Vieni più vicino, lupo caro. Da lì non ti vedo e non ti sento, sono vecchia e non ho più i sensi di una volta.”
Così il lupo si avvicinò, e guardò la testolina poggiata sul cuscino, da cui due occhi lo fissavano tra le palpebre semichiuse.
“Che occhi piccoli hai nonnina.” commentò il lupo.
“È perché sono malata. Vieni più vicino, faccio fatica a vederti.”
Lui si avvicinò.
“E che mani piccole hai.” disse quando fu più vicino
“È perché sono vecchia e avvizzita, lupo caro, ma non ti preoccupare…”
Una fitta improvvisa al petto fece ululare il lupo di dolore. Quando abbassò lo sguardo, vide un manico nero che gli spuntava dallo sterno.
“… il coltello è grande abbastanza.” concluse la ragazzina gettando via le coperte e affondando ancor di più la lama, continuando a tagliare e tagliare finché il povero animale fu letteralmente aperto in due, e le sue viscere sgorgarono sopra il letto.
Toltasi il travestimento, la ragazzina si rimise i suoi vestiti, che aveva lasciato da parte perché non si sporcassero troppo. Poi si chinò e tirò fuori da sotto il letto il corpo senza vita di sua nonna, con la gola squarciata da parte a parte, infierendo su di esso con le zanne del lupo morto, per far sembrare che l’avesse morsa e masticata.
Volle il caso che stesse passando da quelle parti un cacciatore, che udì l’ululato del lupo e si preoccupò.
Proprio mentre la ragazzina si alzava, avendo terminato il suo lavoro, l’uomo entrò come una furia nella casa, guardandosi intorno e chiamando a gran voce.
Giunto in camera da letto vide la nonna e il lupo, entrambi morti, e la ragazzina sporca di sangue e in un lago di lacrime.
“Il lupo… - disse lei singhiozzando - … il lupo aveva mangiato la nonna e si era… si era messo i suoi vestiti. Mi ha ingoiata… tutta intera. Per fortuna… avevo questo… - gli mostrò il coltello insanguinato - … e sono… sono riuscita a uscire aprendogli la pancia.”
“Povera bambina. - disse il cacciatore, avvicinandosi per abbracciarla, forse un po’ più stretto di quanto fosse lecito - Non ti preoccupare, adesso è tutto finito. Diremo che sono stato io a uccidere il lupo, così nessuno ti chiederà niente e la gente ti lascerà in pace.” aggiunse, pensando alla bella figura che gliene sarebbe derivata.
La bambina singhiozzò e si asciugò le lacrime col dorso di una mano.
“Sì, sì… meglio così.” gli rispose.
E fu così che la storia venne tramandata.

lunedì 9 febbraio 2009

Ritorno a Casa

Quando lasciò l’aeroporto, l’idea di tornare finalmente a casa era divenuta qualcosa di più concreto del miraggio che era stata fino a poco prima di atterrare.
Era talmente concentrato su quell’unico pensiero da passare indenne attraverso la confusione che lo circondava, notandola a malapena, proprio lui che non aveva mai sopportato la calca e la ressa. Ma era rimasto lontano per così tanto tempo da non riuscire a concentrarsi sul presente più di quanto gli servisse per avanzare verso l’uscita. Nella sua mente già viveva la fine del suo viaggio, l’incontro con sua moglie, con le bambine, inclusa Sarah, la più piccola, di cui gli sembrava di essersi perso tutte le fasi più importanti della crescita.
A ben pensarci, la sua mente era altrove a tal punto che si poteva considerare un miracolo il fatto che non avesse ancora investito nessuno camminando verso le porte automatiche, e fu ancora più miracoloso il fatto che riuscisse a fermarsi quando queste, inaspettatamente, gli si chiusero a un centimetro scarso dalla faccia, riaprendosi poco dopo e permettendogli infine di uscire, incrociando qualcuno che arrivava dal lato opposto, probabilmente in procinto di partire o, forse, di tornare a casa anche lui.
Raggiunse la strada e cercò di fermare un taxi. Quando partiva per lavoro, di solito, lasciava l’auto nel parcheggio custodito dell’aeroporto, ma per un’assenza lunga come quest’ultima sarebbe stato impensabile. Un vero peccato, perché in caso contrario sarebbe già stato sulla strada, nel relativo conforto dell’abitacolo, piuttosto che fuori, in una giornata insolitamente fredda per la stagione, a cercare inutilmente di farsi notare da un tassista dopo l’altro.
Dopo l’ennesimo fallimento, decise di prendere la metropolitana. La fermata non era vicinissima a casa sua, ma era comunque molto più vicina di dove si trovava in quel momento. Oltretutto non si sentiva affatto stanco, e fare due passi non gli avrebbe certo fatto male.
Salì sul vagone con la fastidiosa sensazione di aver dimenticato qualcosa, che lo accompagnò per tutto il tragitto senza che riuscisse a focalizzare di cosa si trattava, ma la cancellò dalla mente non appena riemerse dal sottosuolo, respirando l’aria familiare delle strade attorno alla sua abitazione, riconoscendo vicoli e insegne come vecchi amici che non vedeva da tempo. Fu solo quando fu ormai a metà strada dal suo appartamento che si rese conto di non aver comprato il biglietto. Quasi non riusciva a capacitarsene, ma ormai era troppo tardi per rimediare, e anche in caso contrario non sarebbe tornato indietro, non adesso.

Mettere piede sul vialetto fu come ritrovare all’improvviso qualcosa che aveva perduto da troppo tempo. Rimase per un istante fermo ad osservare l’esterno della sua casa, quasi incredulo di essere finalmente tornato, riluttante a fare quei pochi passi che lo separavano dalla porta come se, arrivato lì, avrebbe potuto improvvisamente scoprire di aver solo sognato, e risvegliarsi in una delle tante camere d’albergo che avevano costituito il suo rifugio notturno per troppo tempo.
Vinse la sua ritrosia e proseguì per la breve distanza che ancora lo separava dalla sua destinazione finale. Solo allora si frugò in tasca, scoprendo di non avere con sé le chiavi. La cosa non lo preoccupò, aveva smesso di portarsele dietro ogni giorno visto che non ne aveva bisogno, e probabilmente le aveva lasciate nella valigia senza pensarci. Del resto non era un grosso problema, gli sarebbe bastato suonare il campanello.
Era già al terzo tentativo quando realizzò due cose: che nessuno sarebbe andato ad aprirgli, e che la porta, in realtà, non era chiusa, ma solo accostata. La preoccupazione per ciò che poteva essere accaduto lo spinse a entrare di corsa senza neppure fermarsi a riflettere. Se qualcuno era entrato in casa… un ladro, un rapinatore… Dio non volesse uno psicopatico di qualche genere… avrebbe potuto essere ancora lì, ma la cosa sul momento non gli sfiorò neppure la mente. E non avrebbe fatto differenza. In casa non c’era nessuno.
Esplorò una dopo l’altra tutte le stanze, fino alla sua camera da letto, al piano di sopra.
Il letto era sfatto, la stanza in disordine. Una camicia da notte era stata gettata in un angolo, e il piccolo televisore di fronte al letto era acceso. Un notiziario ripeteva incessantemente la notizia del giorno.
La luce dello schermo gli si rifletté sul volto, distorcendogli i lineamenti. Immagini che aveva già visto, senza però registrarle nella memoria, perso com’era in quel suo unico, soverchiante desiderio di tornare. Un desiderio che aveva realizzato fin troppo bene.
Scorse tra la folla inquadrata dai giornalisti il volto di sua moglie. Le bambine erano probabilmente dai nonni. Poi lo schermo mostrò nuovamente i rottami fumanti dell’aereo che si era schiantato sulla pista di atterraggio. Nessun superstite.
Avrebbe voluto tornare lì, cercarla, dirle che era tutto a posto, che lui era tornato a casa.
Ma lei non lo avrebbe sentito.

venerdì 6 febbraio 2009

Happy Ending

E vissero tutti felici e contenti
Sì, e quando mai?
Tutta propaganda, credete a me.
A parte che, per cominciare, ci sarebbe da capire bene chi siano questi "tutti". Di sicuro non il lupo, lo sapete bene che fine ha fatto quel poveretto, e neanche la strega, quella della casa di marzapane. Voi direte "ma quella mangiava i bambini, se lo meritava", ma siamo seri: quando mai ne ha mangiato uno? L'unica volta che ci ha provato è finita nel forno!
E vogliamo parlare del gigante? Non l'aveva certo chiesto lui a quello scioperato di Jack di andare a infilarsi nel suo castello, e voi cosa avreste fatto al posto suo se vi avessero rubato gli unici stivali che avevate?
Cattivi, ci chiamano. Cattivi noi! E con che coraggio ce lo vengono a dire?
Non siamo noi quelli che vanno in giro a squarciare pance, e mozzare teste, e far cadere la gente giù dalle nuvole, eh no!
Sì, certo, qualcuno si lascia andare a gesti un po' estremi, spinto dalla fame o da qualche cattivo consigliere, come quello specchio magico bravo solo a seminar zizzania. Ma poca roba, sia chiaro. Perché non dovete mica credere a tutte quelle fandonie che la gente mette in giro.
Prendete Rumpels... Ruspel... Rumples... sì, vabbe', avete capito di chi parlo... Credete di sapere tutto su di lui, vero? Eh no cari miei, non è andata per niente come si dice.
La paglia in oro sì, quella storia è vera, ma altro che bambino in cambio, era un pagamento per ben altre cose quello... e il bambino, be', cose che capitano. Poi quella lì va a spacciarlo per figlio del principe e si rifiuta anche di farglielo vedere, chiaro che lui dà un po' fuori di matto... mette in mezzo gli avvocati, fa partire la causa per l'affidamento, e non va a perdere perché nessuno riusciva a scrivere giusto il suo nome sulle carte?
La verità è che la storia la scrivono i vincitori, già. E si fermano sempre al momento giusto.
Nessuno vi viene mai a raccontare del divorzio di Cenerentola, quando il marito ha finalmente scoperto cos'era davvero la "bacchetta" della fata di cui parlava di continuo (e cos'era la fata, soprattutto), nessuno fa una cronaca delle liti furibonde del principe con la sua seconda moglie, Biancaneve, dopo che lei l'aveva visto baciare la bella addormentata. Hanno dovuto trattenerla in sette... sì, sì, quei sette lì... per impedirle di ficcargli in gola il resto della mela avvelenata.
E vogliamo parlare di Bella, che ha piantato la bestia la prima notte di nozze quando si è resa conto che grosso e peloso era molto meglio?
No, no, signori miei, non ci si può fermare alle apparenze e ai sentito dire.
Felici e contenti? È una fiaba bella e buona! La verità è che prima danno la colpa a noi di tutte le loro disgrazie, e quando poi non ci siamo più si scannano tra di loro, ma non lo fanno sapere a nessuno, perché i panni sporchi si lavano in famiglia.
Perciò la prossima volta che sentite quella frase ridicola, pensateci bene prima di immaginarvi il lieto fine.
Come dite?
Chi sono io?
È così importante?
Be', ve lo dirò un'altra volta, adesso sento un fastidioso ticchettio che si avvicina.

martedì 3 febbraio 2009

Sfumature di nero

Rimosso causa pubblicazione ^_^ http://www.lafeltrinelli.it/products/9788865782545/Sfumature_di_nero/Carmelo_Massimo_Tidona.html